Lunedì di attesa, di angoscia, quello dell’8 agosto 2011. Tutti sentimenti diffusisi non solo più tra gli operatori finanziari, ma anche tra la gente comune, le persone semplici che fanno il sistema muscolare delle società e ne consentono la marcia diurna.

La profonda crisi economica recessiva che è in corso da circa quindici anni nel mondo  continua inesorabile la sua marcia. Ora ha aggredito più che mai il centro dell’accumulazione capitalistica mondiale: gli Usa, che sono stati sottoposti alla sfida psicologica e politica del downgrade da parte di una delle tre agenzie di rating che indicano la via agli operatori finanziari mondiali, essendo controllate dai vertici dell’oligopolio finanziario mondiale.



Il problema, tuttavia, non è solo economico: questo comportamento di Standard & Poor’s è determinato essenzialmente da una rottura che si è prodotta nel corso della crisi nella stessa business community nordamericana, o meglio tra quella comunità e la Presidenza, con faglie e cleveages che attraversano tanto i Democratici quanto i Repubblicani, in una sorta di rottura della tregua armata che vigeva da dopo l’elezione di Obama.



Standard & Poor’s è strettamente connessa al partito Repubblicano e la sua decisione è profondamente legata a quella dell’ala estrema di quel partito, il che dimostra che il Tea Party interpreta non solo la volontà di Main Street, ossia delle persone semplici, ma anche dei vertici di un settore consistente dell’oligopolio finanziario mondiale stretto attorno al partito Repubblicano che vuol far pagare a Obama la sua politica troppo di “sinistra” nei confronti dei servizi sociali  e troppo interventista in economia, come dimostra il suo comportamento nel caso dell’industria automobilistica nordamericana.



La necessità di puntare a  un indebolimento radicale del dollaro è un altro obbiettivo di questa articolata tattica di accerchiamento e di delegittimazione del Presidente, che oggi si riflette su tutto il mondo. Coloro che avevano dei dubbi sulla centralità Usa ora sono smentiti. Il problema è che Obama è troppo debole e incerto per perseguire qualsivoglia politica: non è all’altezza. Ha ferito i suoi nemici e non li ha uccisi e questo, machiavellicamente, è fatale: da essi avrà solo un odio mortale e imperituro.

Ha aperto i cordoni della borsa per salvare l’economia, ma non abbastanza per assicurarne la ripresa, ha fondato le basi per uno specialissimo welfare non statalistico ma misto (lo Stato paga le assicurazioni ai non abbienti che sono tuttavia sottoscritte dai singoli), ma non è riuscito ad andare sino in fondo nel suo progetto; ha raccolto i voti dei sindacati, ma li ha traditi perché non è riuscito e in parte non ha voluto sfidare la business community sulla rappresentanza dei lavoratori sul luogo di produzione. Tuttavia, una parte di quella comunità è ancora con lui: Geoffrey Immert, il capo della General Elettric, gli sta al fianco come advisor industriale e molti rappresentanti dell’industria continuano a ritenerlo una risorsa per governare le terribili sfide che attendono gli Usa dopo l’errore, fatale e voluto dal vorace oligopolio finanziario, di Clinton di aver ammesso la Cina nel Wto senza reciprocità di sorta.

Ma la debolezza di Obama è stata quella di evocare la riforma del sistema finanziario secondo i consigli del vecchio saggio Volcker, ex presidente della Federal Reserve prima di Greenspan e di non aver dato corso a quel progetto di dividere banche d’affari e di investimento da banche commerciali, ossia di spezzare l’oligopolio finanziario come si fece all’inizio del Novecento in Usa spezzando l’oligopolio energetico dei Rockfeller: dalla Standard Oil ne uscirono dodici di compagnie petrolifere e si mise fine all’era dei Robber Barons. Invece ora i Robber Barons, i cavallieri dell’apocalisse dell’industria finanziaria mondiale fanno il bello e  il cattivo tempo e speculano sullo stesso debito sovrano imponendo la dinamica della vendita e dell’acquisto dei derivati collateralmente ai titoli di stato, inserendo in tal modo anche le finanze pubbliche in un vortice speculativo  che esce continuamente dai confini di qualsivoglia statualità per trasferirsi nella cuspide dell’industria finanziaria mondiale.

Essa  in questo modo controlla l’operato dei governi giorno per giorno, oltre ad aver sempre collocato i suoi esponenti alla testa di ogni governo del globo. Tutto ciò che oggi capita in Europa è quindi amplificato  mostruosamente da questa struttura degli scambi dei titoli pubblici. In Europa, inoltre, abbiamo le disastrose conseguenze di un’impresa impossibile: far sopravvivere oltre gli anni di una crescita impetuosa e violenta, quali furono quelli del ventennio Ottanta-Novanta del Novecento, una moneta senza stato, l’euro, quale mai è apparsa prima al mondo. E questo in un continente privo di un equilibrio di potenza tra stati che sono invece sempre a equilibrio variabile per impedire – inutilmente – alla Germania di divenire il centro di gravità del sistema, costituendo così permanentemente una pericolosissima asimmetria tra centralità economica e centralità politica negli equilibri mondiali di potenza.

E questo in un continente a fortissime asimmetrie sociopolitiche e istituzionali, come dimostra più di tutti l’Europa del Sud con lo sfasciume pendulo di stati quali la Spagna, il Portogallo, la Grecia e l’Italia, che è terra di mezzo, tuttavia, tra sud e continente in Europa: e di qui i suoi infiniti travagli. Nell’Europa del Sud non solo non si è in grado di reggere agli stimoli di produttività e di disciplina sociale e quindi fiscale che vengono dal Paese leader, la Germania, ma, non riuscendo a far ciò si truccano su larga scala i conti, ci si getta in pericolose avventure immobiliari.

L’Italia, il Paese diviso e meno in pericolo industrialmente, ma più afflitto dal debito pubblico, non è in grado di fare né politiche liberiste, né politiche che rifondino su basi tecnocratiche l’economia  e la politica, dando vita a una nuova economia mista liberalizzante. Il  debito pubblico cresce  a dismisura perché non si compiono i passi essenziali d’innalzamento dell’età pensionistica e di riforma del welfare verso una maggiore sussidiarietà e, soprattutto, la crescita è soffocata dai bassi salari su cui si sono costruite fortune capitalistiche miopi e differenziali, che ora che non si può più svalutare competitivamente sono fatali, drenando il mercato interno e castrando uno dei motori della crescita anche in paesi export lead come l’Italia, con conseguente alta mortalità di piccola e media impresa.

Su tutto ciò si staglia l’ombra della tedesca Bce, la Banca centrale europea, il cui statuto fu voluto da Kohl su basi antinflattive per controbilanciare, con il controllo che la Germania avrebbe avuto sulla stessa, i vantaggi politici che Mitterand non voleva perdere consentendo l’unificazione tedesca e quindi europea (solo l’unificazione europea poteva consentire quella tedesca, ma il tutto fu compiuto in via monetaristica e in tal modo l’obbiettivo non fu raggiunto, con l’asimmetria di cui dicevo). Quando si fece l’unificazione monetaria,  i tedeschi non volevano essere ossessionati dalla loro unificazione. Imposero di controllare i flussi monetari globali europei e ci sono riusciti con esiti ottimi per la Germania, ma disastrosi per tutti gli altri paesi (un po’ meno per la Francia e i Paesi Bassi per l’alta integrazione ch’essi hanno con l’avversario secolare e anche per loro propria forza).

Questa disciplina monetaria coatta  toglie l’ossigeno alla crescita non tedesca, che invece la Federal Reserve nordamericana dà agli Usa e al mondo. Del resto, ciò è comprovato dal fatto che appena approfittando del sonno di Trichet, l’ispettore Clouseau dei banchieri centrali, la Bce si comporta come la Fed, per esempio acquista titoli di stato dei paesi europei come ieri ha iniziato a fare per l’Italia, l’aria circola nel sistema e pur aumentandosi in tal modo il debito sovrano sovranazionale e quindi allontanando ma non eliminando la crisi fiscale, le borse respirano e il panico diminuisce indebolendo la speculazione dell’oligopolio internazionale finanziario.

Operando invece come la Bce fa di norma,  si  spinge l’Europa verso la deflazione per timore di un’inflazione che non esiste: una paura che trasformerà l’Europa nell’immobile Giappone. Su tutto ciò l’oligopolio finanziario regna sovrano e decide volta a volta quale area europea assalire sulla base del mercato dei derivati collaterali dei titoli di stato e sulla base delle condizioni non tanto del debito, ma delle prospettive di crescita. Al debito si può porre fine celermente e il mezzo più rapido è l’inflazione di cui non occorre, di questi tempi, non avere paura o meglio occorre avere meno paura della  crescita.

Eccoci al tema: se non vi è crescita nessuno potrà mai ripagare il debito, solo la crescita può farlo, ma è ciò che i governi europei non sanno e non vogliono fare. Stimolare la crescita vuol dire certo abbassare il debito pubblico nel lungo periodo, ma nel breve finanziare misure essenziali e la più essenziale  è la diminuzione verticale, immediata, delle tasse sul lavoro e sul capitale da profitto capitalistico, non da circolazione finanziaria. Di qui la necessità di spezzare l’oligopolio finanziario in tutti i paesi dividendo banca retail da banca d’affari e impedendo alle banche di strozzare le imprese continuando a fare profitti con la finanza ad altissimo rischio. La riforma bancaria è impellente e senza di essa non ci sarà mai crescita. La banca deve ritornare a fare utili con il credito alle imprese e alle famiglie e non con la speculazione che consente altissimi compensi ai manager.

Non c’è  bisogno di patrimoniali e di più tasse, ma di meno tasse per far respirare l’economia, d’interventi pubblici lì dove il capitale privato non arriva per generare scosse di crescita (le alte tecnologie, ecc). Il tutto riformando lo Stato: officer e authority invece che aziende pubbliche, tecnocrati con responsabilità personale invece che consigli di amministrazione, innalzamento dei salari  e operazioni chirurgiche sui compensi immorali dei manager. Insomma: sarebbe possibile farcela. Bisogna rovesciare un mondo che indietreggia a testa in giù, governato dagli eletti cooptati dai grandi banchieri internazionali. Si avanza soltanto con i piedi per terra.

È possibile? Se non lo sarà la crisi durerà ancora una decina d’anni sino a quando la crescita non si riaffaccerà. Ma è un tempo lontano e che sarà preceduto da una decrescita del commercio mondiale già in atto che colpirà tutti, come già accade anche ai paesi emergenti, Cina in testa, e allora ridurre il rischio e l’indebitamento finanziario diverrà una strada obbligata per non far affondare  intere società, che sorreggono l’economia. Con immensi dolori sociali e morali.

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