In alto i calici, si brindi! L’asta del Tesoro di martedì mattina ha visto il nostro Btp decennale trattato a un tasso medio del 5,22 per cento, in calo di 0,55 punti rispetto all’ultima asta di titoli a medio e lungo termine. Ancora più sensibile il calo registrato dal titolo triennale che ha segnato un rendimento del 3,87 per cento, -0,92 punti. Peccato che contemporaneamente allo svolgimento dell’asta e nel pomeriggio sempre di martedì, lo spread tra gli stessi Btp decennali e i Bund tedeschi abbia sfondato quota 300 punti base due volte per poi assestarsi a 298, dodici punti base più dell’apertura delle contrattazioni, che la domanda sia stata decisamente deludente – bid-to-cover ratio di 1,3 – e che la Bce sia intervenuta sul mercato secondario per cercare di bloccare l’ampliamento dello spread. Ed è proprio questo ultimo punto che deve togliere ogni ottimismo legato all’asta di martedì: nonostante sia noi che la Spagna, la quale terrà la propria asta proprio questa mattina, godiamo da tre settimane dello scudo della Bce, lo spread continua a salire – la stessa Bankitalia ha sottolineato come resti in maniera preoccupante alto – e il rendimento non crolla. Il perché è presto detto: stiamo solo rimandando la resa dei conti con i mercati di qualche settimana, stiamo prendendo tempo nella consapevolezza che storicamente la Bce con i suoi interventi non è mai riuscita a supportare i prezzi dei bonds.
Quando Francoforte il 10 maggio 2010 diede inizio al suo programma di acquisto di bond, acquistando 16,5 miliardi di euro di securities governative greche, il rendimento del decennale ellenico scese di oltre il 4,5 per cento al 7,77 per cento. Dieci settimane dopo, quando l’esborso della Bce per acquistare obbligazioni sul mercato secondario scese a 176 milioni di euro, il rendimento del decennale ellenico arrivò al 10,43 per cento: oggi viaggia sul 18,20 per cento. Stesso identico pattern per Irlanda e Portogallo, le quali nonostante gli acquisti della Bce, una volta entrate a far parte del “club del 7 per cento”, dovettero andare con il cappello in mano da Ue, Bce e Fmi. Il 10 maggio 2010 anche il decennale irlandese, infatti, scese al 4,2 per cento di rendimento dal 5,86 per cento dal giorno di contrattazioni precedente.
L’11 novembre era già all’8,9 per cento: una settimana dopo, Dublino chiese il salvataggio. Scelta obbligata che Lisbona compì invece il 6 aprile di quest’anno, quando il rendimento del suo decennale superò l’8 per cento dopo che la Bce aveva speso qualcosa come 77 miliardi di euro per comprare debito portoghese: l’11 di luglio, quando Francoforte prese una pausa di cinque mesi nel suo programma di acquisti, il rendimento dei decennali lusitani toccò il record del 13,44 per cento. Per David Schnautz, analista presso Commerzbank AG a Londra, «il rischio è che se la Bce resterà fuori dal mercato secondario, gli spreads sui rendimenti si amplieranno in maniera significativa e allora per l’Italia sarà una sfida collocare il suo debito. C’è una possibilità significativa che gli investitori debbano prepararsi a un incremento dello yield sopra il 6 per cento». La Bce ha comprato Btp italiani e Bonos spagnoli per 22 miliardi di euro tre settimane fa, per 14 due settimane fa e per 6,6 la scorsa settimana: lo spread, però, resta alto e continua a salire, a differenza della domanda.
E l’altro giorno, durante l’audizione all’Europarlamento, Jean-Claude Trichet ha mandato un chiaro segnale a Italia e Spagna quando ha detto che «l’acquisto da parte della Bce di titoli pubblici non può essere usato per aggirare la disciplina finanziaria, poiché la stabilità del mercato del debito dipende dalla credibilità dei Paesi». Infine, l’annuncio: «La Bce non è la Fed». Come dire, cari italiani e spagnoli, il volume dei nostri acquisti continuerà a scendere fino ad esaurirsi nell’arco di settimane, dopo le quali dovrete camminare con le vostre gambe. Ed essendo le economie italiana e spagnola decisamente più grandi di quelle greca, portoghese e irlandese, l’impennarsi dello spread potrebbe conoscere una velocità decisamente maggiore verso quota 7 per cento. Questo il contesto, al netto dell’ottimismo mal riposto del Tesoro. Ma al peggio europeo non c’è limite. La Banca Nazionale Greca, il primo istituto di credito ellenico, ha infatti riportato una perdita di 1,31 miliardi di euro nel primo semestre.
Il rosso è legato proprio alle svalutazioni dei titoli di Stato di Atene detenuti dal gruppo, al netto delle quali si sarebbe registrato un utile netto di 29 milioni (della serie, se mio nonno avesse le ruote sarebbe un carretto): la banca ha inoltre fatto sapere di aver accantonato 1,65 miliardi per le ulteriori perdite già previste a causa dei bond greci nel proprio portafogli. Lunedì la notizia della fusione tra la seconda e la terza banca del Paese, EuroBank e Alpha Bank, ha mandato sull’ottovolante quel cimitero degli elefanti della Borsa di Atene, capace di chiudere con un rotondo +15 per cento, garantito dai guadagni sopra il 20 per tutti gli istituti ellenici che festeggiavano il matrimonio tra due zombie per il semplice fatto che il fondo sovrano del Qatar sarebbe salito fino a una quota azionaria del 16 per cento garantendo un esorbitante investimenti di 500 milioni di euro. Evviva!
Avete idea di quale fosse lo stato delle banche e della Borsa greca fino a venerdì scorso? Ve lo dico io. Ai primi di luglio la Borsa di Atene era a 580 punti, a venerdì scorso ne aveva persi 216, cioè il 37 per cento. Annalizzano il dato, il calo è del 51 per cento mentre rispetto al 2007, era pre-Lehman quando a forza di taroccamenti dei conti e currency swaps la Borsa ellenica tirava come un camino, il calo è pari all’81 per cento. Chi ha subito le perdite maggiore, ovviamente, sono i titoli bancari: la Piraeus Bank venerdì scorso, prima del rally per la fusione degli zombie, pativa un -8 per cento a 0,55 euro per azione. Prima della crisi globale, nel settembre 2007, il titolo si scambiava di mano a quasi 15 euro per azione.
Bene, ora tenetevi forte perché se pensavate che gli euroburocrati avessero esaurito la fantasia, dovrete ricredervi. Cosa si è inventato, infatti, quel genio di Klaus Regling, capo del fondo salva-Stati EFSF (ancora non è ufficialmente nato e già spara ca…te, un vero record), per sbloccare l’impasse innescata dalla richiesta finlandese di ottenere collaterale dalla Grecia a garanzia dei prestiti per il secondo salvataggio (cosa ci sia da salvare con il bond a 1 anno che paga un rendimento del 60 per cento e quello a 2 anni del 45 per cento, ditemelo voi con calma)? Offrire come collaterale a Paesi “salvatori” le azioni delle insolventi banche greche, le quali verranno parzialmente nazionalizzate dall’insolvente Stato greco, decisione che nella mente dei geni di Bruxelles dovrebbe far schizzare alle stelle il valore dei loro titoli!
E ad aggiungere ridicolo a oltraggioso, ci pensa il fatto che dei 109 miliardi di euro del secondo pacchetto di salvataggio della Grecia, oltre 20 portano già il cartellino proprio con il nome delle banche elleniche. Ma il debito greco non fa vittime sotto tra gli istituti del Partenone. Lo conferma la quanto mai irrituale lettera dell’International Accounting Standards Board (IASB), secondo cui «alcuni gruppi finanziari europei avrebbero sottostimato le perdite nei loro bilanci relative alle obbligazioni sul debito sovrano greco». Un intervento, quello dell’Iasb, senza precedenti e che riflette il concreto timore che alcuni istituti bancari europei non abbiano preso le dovute precauzioni per compensare le perdite di valore delle obbligazioni in loro possesso del debito sovrano greco. Nel mirino ci sarebbero per ora i gruppi francesi Bnp Paribas e Cnp Assurances, i quali hanno svalutato solo per il 21 per cento del valore nominale la loro esposizione al debito greco, mentre le perdite registrate dal mercato sono ben superiori: ecco spiegato l’allarme sulla necessità di ricapitalizzazione delle banche europee lanciato venerdì scorso dal presidente dell’Fmi, la francese ed ex ministro delle Finanze, Christine Lagarde.
E a farci capire che uno stop a questo andazzo non sarebbe lontano, ci ha pensato l’ambiguo e contraddittorio messaggio giunto ieri dalla Germania. Mentre il governo tedesco di Angela Merkel approvava in mattinata la proposta di legge che riforma il fondo di stabilità (Efsf) secondo quanto deciso durante il vertice dell’eurozona dello scorso 21 luglio, fissando per fine mese la data del voto al Bundestag, contemporaneamente il sito della Cnbc rilanciava un’intervista con il sottosegretario alle Finanze tedesco, Jorg Asmussen, secondo cui la dotazione da 440 miliardi dell’EFSF «è sufficiente, visto che una volta giunti a questa cifra c’è la disponibilità monetaria dell’Fmi». Insomma, l’EFSF va bene così com’è, niente scudo per acquisti di bond italiani e spagnoli: calcolando che di quei 440 miliardi, circa 350 sono già stanziati per Irlanda, Portogallo e Grecia, lo spazio di azione per bloccare un contagio appare nullo.
Il problema è che, forse, ai tedeschi non interessa affatto evitare o fermare eventuali effetti domino. Come decodificare altrimenti le parole di Hans-Olaf Henkel, capo della Confindustria tedesca, che in un articolo a suo firma sul Financial Times ha definito il suo passato supporto per l’euro «il più grande errore professionale che abbia mai compiuto» e invocato un “piano C” attraverso il quale Germania, Olanda, Austria e Finlandia rompano con l’eurozona e formino la loro valuta, lasciando l’area Sud con un euro indebolito affinché possano cercare di riattivare la ripresa: «Alcune banche del Nord, inoltre, dovrebbero essere temporaneamente nazionalizzate per prevenire il fatto che perdite sul debito del Sud possano causare una crisi finanziaria». Per Stephen Jen della SLJ Macro Partners, quando gli Stati debitori si renderanno conto dell’inutilità di una prosecuzione delle politiche di austerity imposte loro dall’Ue, si aprirà una nuova fase della crisi europea del debito: «Penso che succederà nell’arco di settimane, non di mesi».
P.S. Nel tardo pomeriggio di ieri il comitato parlamentare indipendente di esperti nominato dal ministero delle Finanze di Atene ha confermato nel suo bollettino mensile che «il debito pubblico è andato fuori controllo e le politiche per rimettere in ordine le finanze stanno fallendo. La crescita verticale del debito e l’alto deficit primario hanno esacerbato al massimo livello le dinamiche del debito, ormai incontrollabile. E’ ormai chiaro che il problema della nazione non è soltanto quello della dimensione del debito pubblico ma l’incapacità di consolidare la gestione fiscale corrente. Senza giganteschi sforzi di aggiustamento fiscale, non si otterrà nessun surplus primario e, al contrario, assisteremo a una divaricazione del deficit». Insomma, la certificazione del default. E le Borse europee? Hanno festeggiato con rialzi medi del 2,5 per cento (Milano la migliore a +3,02 per cento): poi mi dicono che bisogna fidarsi del mercati…