Il 6 agosto la crisi ha compiuto quattro anni. In questo compleanno, che nessuno ha giustamente voluto festeggiare, ci siamo resi conto che il pargolo sta crescendo robusto, nonostante i più fossero pronti a decretarne la morte prematura dopo pochi mesi.
Con lo svolgersi della crisi è stato avvincente vedere il radicale cambiamento nella percezione e nella risonanza mediatica di questi eventi. Se nel 2007 “subprime” era una parola per pochi adepti, gli scossoni recenti occupano le pagine dei quotidiani e hanno iniziato a permeare le “discussioni da bar” (in agosto tradizionalmente incentrate sul calciomercato). Ciò che purtroppo non è cresciuto a braccetto con l’attenzione dei media è stata la coscienza di quello che è accaduto (e sta accadendo).
Il primo sintomo è la tendenza a trattare la picchiata dei mercati di rischio iniziata nello scorso aprile come una nuova crisi. Senza citare la (lunga) lista di quelli che “l’avevano detto”, se il mondo si trova in questi giorni a confrontarsi con lo spettro di una recessione globale è perché i focolai del 2007 non sono mai stati spenti, ma tuttalpiù coperti. Il secondo è la strenua volontà di non capire, che trova la sua massima espressione nel “dagli all’untore” che accompagna ogni flessione nei prezzi delle azioni o dei titoli governativi. Nessuno vuole spiegare quella che è stata la miccia che ha fatto implodere il mercato dei Btp perché è molto più semplice dire che è la speculazione.
Nessuno ha interesse a rivelare che i primi scossoni sono stati causati da vendite di fondi europei (quelli che nel gergo finanziario sono detti “Real Money”, in contrapposizione al “Fast Money” degli hedge funds) per un involontario overweight sull’Italia e non dal gioco sporco di qualche yuppie nella City. Pensare che questo rifiuto della realtà appartenga solo al mondo giornalistico è comunque ingenuo, basta guardare alle reazioni in politica economica messe in piedi da governi e banche centrali che si muovono in acque (talvolta colpevolmente) inesplorate.
Ma questo rifiuto di guardare alle implicazioni porta con sé il terzo sintomo, il più sinistro e devastante, cioè il “soluzionismo” spinto. Soluzioni alla nuova crisi e pareri affollano le pagine dei quotidiani e dei blogs e in questo non vi è nulla di male in sé. Ne abbiamo sentite parecchie dall’inizio della crisi e tante ancora sono benvenute visto che si continua a navigare a vista. Ma l’illusione di una soluzione a-la-Harry Potter, il colpo di bacchetta magica del governo o della Bce che risolverà i problemi dell’Europa è una favola che non finisce bene.
Ogni proposta porta dietro un’idea di economia, di politica e (neanche troppo) ultimamente di uomo che è giusto sfidare, o adesso o mai più. Ogni proposta, finché è guardata come un tentativo dei “piani alti” di risolvere con alchimie finanziarie una crisi nata da alchimie finanziarie è segnata fin dalla nascita. Questa crisi, è bene ricordarlo, interessa innanzitutto l’individuo, che ha smesso di essere l’unità di misura dell’economia.
Pian piano l’economia “moderna” ha perso di vista quello che sta alla base dell’economia stessa ovvero l’individuo. Infatti, lo spostamento del desiderio, come il desiderio di render grande la propria azienda o se stessi attraverso il proprio lavoro, verso il mero guadagno e il cambiamento dei mezzi in fine sono stati tra le cause della crisi. Cosi l’unica soluzione alla crisi non può che venire dall’unica cosa su cui si può costruire e ricostruire: l’individuo, con tutti i suoi desideri e le sue capacità.
“The budget should be balanced, the Treasury should be refilled, public debt should be reduced, the arrogance of officialdom should be tempered and controlled, and the assistance to foreign lands should be curtailed lest Rome become bankrupt. People must again learn to work, instead of living on public assistance” (Il bilancio dev’essere in pareggio, le casse del Tesoro di nuovo riempite, il debito pubblico ridotto, l’arroganza dei politici rintuzzata e poi moderata, l’assistenza agli stati stranieri tagliata se vogliamo evitare che Roma vada in bancarotta. Le persone devono nuovamente imparare a lavorare invece di vivere alle spese dello stato).
La citazione non viene da Trichet o Bernanke, ma è attribuita da Caldwell a Cicerone, che ha ragione da vendere. Ma come la storia ci ha insegnato non può essere neanche la nostra Roma il bene supremo a cui appigliarci, perché bastano un’onda di barbari per portarcela via.