La crisi in corso si sta rivelando per ciò che è, ovvero una duplice crisi: economica e della sovranità e quindi della statualità. Con la globalizzazione ascendente, le trasformazioni della sovranità non erano così evidenti: le società si mondializzavano e le economie si interconnettevano trascinando la statualità per i mercati, ma senza provocare scosse alla fondamentale struttura delle nostre credenze.
La crescita fondava il velo di ignoranza che le sorreggevano e i più pensavano che lo Stato continuasse a essere l’elemento fondamentale del nesso tra politica ed economia. Che altro è la statualità se non il monopolio della forza, il monopolio della tassazione e il monopolio di emissione della moneta-reale e simbolica ch’essa sia?
Ebbene, con il diritto d’intervento a fini umanitari eretto a sistema di regolazione dei pesi e delle rilevanze geopolitiche, il monopolio della forza si è trasferito a unità di scopo sovranazionali che sovradeterminano il diritto della dichiarazione di guerra, umanitaria o no ch’essa sia. Di più, la creazione di un mercato globale dei capitali regolato da banche visibili – ossia quotate – e da banche invisibili (shadow banks), ossia non quotate ma attivissime nell’allocazione e circolazione del capitale attraverso dark pools, entità di scopo finanziario adatte a veicolare valori simbolici a fronte di un’estesissima collateralizzazione del debito e di altissima leva di rischio, a fronte di tutto ciò anche l’emissione di moneta simbolica degli stati è stata sottratta agli stati medesimi dalla istituzionalizzazione esoterica – dark states – delle banche universali collocanti i titoli di stato. Questa è la trasformazione che, oggi, la globalizzazione che declina ha reso evidente ai più.
Questa è l’evidenza costituzionalmente più rilevante della crisi in corso: le banche centrali che continuano a esistere anche laddove, come in Europa, vige una banca centrale sovranazionale dello Zollverein che funziona da creditore in ultima istanza nonostante lo statuto che la regola (stabilità e niente crescita tra i suoi obbiettivi istituzionali), le banche centrali nazionali non collocano più direttamente sul “mercato” titoli di stato, ossia non lanciano più il debito pubblico nello spazio delle popolazioni organizzative che lo abitano creandolo direttamente, ma attraverso le unioni di fatto delle banche universali che affrontano il rischio di una pericolante statualità collegando le monete simboliche statutali a collaterali, credit default swaps et similia che debbono proteggere le banche collocanti dai rischi a fronte degli acquisti: la sovranità degli stati è appesa alle fila della collateralizzazione della nuova banca universale che non fa più margini concedendo credito alle attività dell’economia reale, ma vendendo ad altissimo rischio per i depositanti (ignari e bastonati) prodotti finanziari: i titoli di stato si sono trasformati in prodotti finanziari.
L’ultimo requisito statualistico che rimane è quello dell’imposizione fiscale, con le conseguenze devastanti a fronte dell’impossibilità di stabilire statualisticamente le controprestazioni, con la devastazione della legittimazione dello Stato medesimo a fronte del costo pagato dai cittadini per via dell’imposta: dove la repressione fiscale è l’altro vero volto della crisi economica mondiale in corso.
La crisi, quindi, è destinata a durare sino a quando non verranno ascoltate le raccomandazioni prima di Volcker, anziano e saggio ex presidente della Fed e per un breve tratto di strada a fianco dell’impresentabile Obama, ora di Sir John Vickers, incaricato di formulare il piano di regolazione radicale degli intermediari finanziari nelle felici isole del Regno Unito, fuori dall’euro. Le raccomandazioni di Sir John sono tutte dirette a spezzare l’industria finanziaria, dividendo le attività ora unite del retail per l’economia reale e per le famiglie, dalle attività di trading, eliminando così il rischio. Ma i top manager stockoptionisti hanno già aperto il fuoco minacciando di lasciare la City: del resto hanno nelle loro mani la politica. E hanno questo potere di fatto in tutto il mondo e quindi è impossibile che tale potere permetta simili riforme: sono rivoluzioni… che farebbero a pezzi un immenso potere
E la crisi ha anche l’aspetto essenziale dell’interruzione della catena virtuosa della produzione di merci per mezzo di merci: è una crisi di sovrapproduzione, con disoccupazione strutturale di lunga durata per via della ristrettezza crescente dei mercati interni. Essa si è determinata negli ultimi anni per via dei bassi salari che hanno accompagnato in tutto il mondo la produttività del lavoro di origine tecnologica: lo sfruttamento operaio è giunto a livelli parossistici, confermando la tesi di Kalecki che il capitalismo ad alti tassi di profitti tende a mantenerli facendo di tutto per innalzare il livello di disoccupazione.
Il capitalismo delle alte tecnologie teme come il diavolo l’acqua santa la piena occupazione: non può sopportarne neppure la vista. Oggi la crisi di sovrapproduzione mondiale non può più essere controbilanciata neppure dalla crescita dei Bric, che crescono meno di quanto è necessario per la circolazione del capitale: di qui una crisi di lunga durata e di grandi sofferenze sociali.
Mi dicono che tutto dipende dal debito pubblico: rispondo che il Belgio ha un debito pubblico immenso e un’assenza del governo da quasi 500 giorni, eppure non è scelto come bersaglio dall’oligopolio finanziario mondiale. E il Giappone, che pure ha il debito pubblico più elevato del mondo, non cresce per la deflazione e non per il peso del debito.
Certo: il debito pubblico lega le mani agli stati che scagliano nei mercati la loro necessità di finanziarsi per far fronte alle crisi di rappresentatività e di efficienza di un welfare statolatrico mentre si schiantano sotto il peso dei calibri speculativi delle banche universali che gli stati stessi non vogliono spezzare o ridurre. Il tutto si avvoltola attorno l’arcolaio di una storia senza fine di una globalizzazione che ha distrutto ogni senso di giustizia. Nessuno sa più che cosa sia la giustizia, tutti sanno che cos’è il debito pubblico…