Le cifre parlano chiaro: non sarà facile evitare una nuova manovra finanziaria. Ma una nuova manovra, previsione ancor più facile, rischia di mandarci a picco. È questo in sintesi il dilemma, semplice ma terribile, dell’Italia spa: o si spezza un circolo vizioso, che in pratica condiziona le sorti dell’Italia fin dall’inizio dell’avventura della moneta unica, o il Paese si condanna da solo a un declino che ha ormai preso velocità e minaccia di travolgere le generazioni più giovani.
Messo in altri termini, dopo quasi vent’anni dobbiamo prender atto che l’Italia non ha ancora individuato una politica economica che sostituisca la svalutazione della vecchia lira, quell’iniezione di adrenalina che a intervalli costanti dava la scossa al Paese. Negli ultimi vent’anni, al contrario, l’Italia si è mostrata incapace di sfruttare la leva del basso costo del denaro.
Eppure, con un calcolo approssimativo, si può sostenere che prima la rincorsa all’euro, poi l’aggancio alla moneta unica hanno consentito di risparmiare almeno cinque punti percentuali di interessi all’anno. Ovvero il corrispondente di un anno di Pil o anche più. Un’occasione preziosa per azzerare il debito che capita una volta al secolo.
Nel 1905, in piena era giolittiana, la vecchia Italia liberale riuscì a sfruttare per bene l’occasione offerta dall’economia globale, attraendo investimenti produttivi e presentando alle banche francesi e tedesche, l’equivalente dei cinesi di oggi, il quadro di un Paese in piena evoluzione civile, dove si pagavano le tasse e si lanciavano piani di sviluppo sia per l’industria del triangolo industriale che per il risanamento di Napoli. Purtroppo, i frutti di quella stagione vennero dispersi dalle folli spese per le avventure coloniali, a partire dalla disgraziata spedizione in Libia – speriamo che non sia questa l’unica analogia seguita dall’Italia di oggi che, dopo vent’anni di tassi calanti e massicce privatizzazioni che hanno interessato banche, telefoni, autostrade e molto altro, si ritrova con un debito pubblico immune a ogni terapia ordinaria: il salasso delle finanziarie, tre in tutto, approvate tra il 2010 e il 2011 farà abbassare solo di mezzo punto, dal 120% al 119,5% il rapporto tra debito e Pil.
L’unica strada per evitare un lungo calvario passa per la crescita. Ma qui le previsioni si fanno, di giorno in giorno, più funeste. L’ultima stima, presentata ieri dal Centro studi Confindustria, parla di un modesto 0,7% per il 2011, due decimali in meno rispetto ai conti, già pessimisti, di giugno. Le cose, poi, peggiorano se si guarda al 2012: l’anno prossimo, sotto il peso degli effetti di tre manovre finanziarie (quella del 2010 più due approvate tra luglio e l’altro ieri), l’Italia rallenterà fino allo 0,2%. Ovvero solo un decimo della crescita che, secondo Banca d’Italia, sarebbe necessaria per centrare l’obiettivo del risanamento finanziario indolore per le tasche degli italiani.
In assenza di questa spinta al Pil, l’obiettivo del risanamento non può che essere tentato attraverso sacrifici sul fronte delle entrate, perché ai tagli di spesa, in una situazione politica e amministrativa così farraginosa, non ci crede nessuno. Ma nuovi sacrifici fiscali, in un Paese che già deve fare i conti con una pressione fiscale record, non possono che tradursi in minori consumi, minori investimenti e, in prospettiva, minor crescita.
Senza dimenticare che la situazione, se si esce dalla cornice delle statistiche per addentrarsi nella cronaca, risulta ancor più complicata. Il caso di Irisbus, la società di Fiat Industrial che si avvia a chiudere i battenti per l’assenza di domanda di mezzi pubblici da parte di Comuni stremati e in bolletta, è un esempio clamoroso ed esemplare di quanto sta accadendo in buona parte del Paese. Migliaia di artigiani che attendono da centinaia di giorni i pagamenti delle pubbliche amministrazioni stanno imitando l’esempio della Fiat: quando possono, chiudono i battenti. Senza l’inutile balletto dei tavoli ministeriali, delle proteste davanti alle telecamere o lo stupore, un po’ patetico, dei maggiorenti che gridano al “tradimento”.
Non ci vuol molto a capire che una fabbrica senza domanda non può che chiudere i battenti. Ci vuole, al contrario, molto per trovare i fondi necessari perché i Comuni tornino a rinnovare il parco dei bus invece che riempire gli uffici delle varie aziende trasporti di parenti o sodali di partito.
È possibile che l’Europa ritrovi, con una certa fatica, la strada della ripresa. Molto potranno fare le banche centrali. Ancor di più l’Unione europea, se passerà la strategia di usare in funzione anticiclica i quattrini raccolti dal fondo salva-stati. Ma questo non risolverà i problemi di casa nostra se non tornerà a imporsi una filosofia della crescita. Altrimenti si allargherà ancor di più lo spread. Non quello, pur importante, che misura la distanza tra Btp e Bund, ma quello che misura la distanza tra le economie reali.