Nel 2011 l’Italia è liberalizzata al 49%. Il valore riscontrato nella ricerca annuale dell’Istituto Bruno Leoni è sostanzialmente in linea con quelli trovati negli anni precedenti (siamo solo un punto sopra il 2010) e indica un Paese che, sostanzialmente, è fermo. Certo, il 49%o complessivo è il risultato di valutazioni molto diverse tra di loro, nei sedici settori indagati.
Diversi settori hanno avuto cambiamenti visibili, in meglio o in peggio. Resta però il fatto che l’Italia, nel suo complesso, non ha né allargato, né ristretto gli spazi concorrenziali, ossia gli spazi di opportunità per l’inventiva imprenditoriale. Di conseguenza, i consumatori devono fare i conti con prezzi più alti e un’offerta meno diversificata.
Quali sono le conclusioni dell’Indice 2011? Questa è la sintesi dello studio presentato ieri a Milano: “Il settore più liberalizzato è il mercato elettrico (72%, in crescita di un punto sul 2010), seguito da servizi finanziari (69%, in crescita di 5 punti principalmente per la contrazione delle attività finanziarie nel benchmark elvetico) e televisione (62%, in calo di tre punti a causa del maggior dinamismo osservato nel benchmark spagnolo). I settori peggiori sono i servizi idrici (19%, due punti in più del 2010), autostrade (28%, in calo rispetto all’anno scorso) e trasporti ferroviari (36%, in arretramento di 5 punti rispetto all’anno scorso a causa delle nuove restrizioni ai contratti nel trasporto regionale).
Per quel che riguarda gli altri settori, si segnalano i significativi passi avanti nel mercato del gas (62% rispetto al 55% del 2010) e nelle poste (47% contro il precedente 41%, grazie soprattutto al recepimento, seppure di per sé insoddisfacente, della terza direttiva postale). Modesti progressi si sono osservati nel fisco (56% contro 54%, dovuto soprattutto al peggioramento del benchmark britannico) e nel trasporto aereo (62%, a fronte del 60% dell’anno precedente). Infine, hanno guadagnato un solo punto la pubblica amministrazione (39%), il trasporto pubblico locale (44%) e le telecomunicazioni (42%). Da ultimo, sono rimasti stabili i seguenti settori: mercato del lavoro (60%), ordini professionali (47%) e mercato dell’arte (45%)”.
Questi dati, in un momento di intenso dibattito sulla crescita, sono oggetto tanto di disappunto quanto di speranza. Disappunto perché è difficile evitare il pensiero che, se il dossier liberalizzazioni fosse stato preso sul serio per tempo, oggi la situazione sarebbe molto meno pesante, grazie a un decennio non del tutto perso in termini di sviluppo. Contemporaneamente, però, la bocciatura in tema di liberalizzazioni disegna un percorso (forse, l’unico percorso) che l’Italia può seguire per uscire dall’impasse.
La crisi attuale è frutto della gestione allegra delle finanze pubbliche, ma la severità con cui ci guardano i mercati dipende principalmente dalla sfiducia che i tassi di crescita futuri siano sufficienti a sostenere il debito accumulato. La crescita non è, da sola, la soluzione, e non è un sostituto del rigore. È tuttavia parte indispensabile di qualunque soluzione possibile.
Gli ostacoli su questo sentiero, allora, sono tutti e solo di natura politica. È la resistenza culturale e di interesse del ceto politico a causare l’arretramento del Paese e il suo lento scivolare nel declino. L’Indice delle liberalizzazioni vuole essere strumento di analisi e documentazione, ma anche pungolo e “manuale delle riforme a costo zero”. La notizia non è il valore del 49%: la notizia è il 51% di “non liberalizzazione” che dà la misura di quanto non è stato fatto e di quanto resta da fare.