Negli stessi minuti in cui Marco Milanese veniva salvato dall’arresto per un pugno di voti, la Borsa di Milano sfiorava un ribasso del 4%, mentre lo spread tra Btp e Bund viaggiava abbondantemente sopra i 400 punti base. L’ennesima giornata di passione dei mercati finanziari italiani si collegava al panico che ha investito i centri nervosi della finanza globale dopo l’avvertimento, esplicito e drammatico della Federal Reserve sullo stato, pessimo, dell’economia Usa.



I futures sullo Standard & Poor’s lasciavano prevedere una partenza in profondo rosso a Wall Street, sull’onda di quanto già vissuto dalle piazze asiatiche. L’Europa, manco a parlarne: i ribassi, soprattutto alla Borsa di Francoforte, cuore d’Europa oltre che della locomotiva industriale tedesca, erano più marcati che a Milano.



Sono fatti noti, che da oggi contendono la prima pagina dei quotidiani alle immagini forti in arrivo dalle intercettazioni napoletane, relegando nelle pagine interne il campionato di calcio piuttosto che le cronache rosa (ormai ridicole, se si guarda agli sviluppi piccanti della politica tra le lenzuola).

Eppure val la pena di ricordarli, se non fosse che per combattere una visione italocentrica della politica, per cui tutto dipende dalla qualità della manovra (o delle manovre) piuttosto che dalla cattiveria di Standard & Poor’s o dalle resistenze della Fiom per non parlare del decollo del ponte sullo Stretto o dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, o altre facezie consimili di cui sarebbe condito il New Deal nostrano, più patetico che vecchio.



Guai a vedere la crisi italiana come si è fatto in questi anni, in una chiave puramente interna. Da affrontare e risolvere con i tempi e i modi di casa nostra. A partire dallo scorso luglio, quando è apparso evidente alla comunità internazionale che l’Eurozona non aveva in serbo una ricetta in grado di scongiurare il collasso della Grecia, c’è stato un salto di qualità della crisi. I problemi dei singoli Paesi sono diventati il problema che riguarda tutti. La domanda, in altri termini, non è più se la Grecia si salverà o meno bensì: come e in che misura l’Europa saprà sopravvivere a uno shock più pesante di quello subito ai tempi di Lehman Brothers?

L’Italia, che è un’economia chiave del sistema (la seconda potenza manifatturiera della Ue, la terza economia e il secondo debito pubblico in cifre assolute oltre che il primo in rapporto al Pil), rappresenta una parte determinante della risposta. Il Paese è troppo grande per fallire da solo senza trascinare gli altri in una caduta senza limite. Ma è anche troppo grande per essere salvato. Ergo, l’Italia rischia di trascinare l’Europa in una crisi senza ritorno. Ma gli altri non possono fare molto se l’Italia non si aiuta da sola, perché, anche se ci fosse la volontà politica di farlo, non ci sono mezzi a sufficienza per salvare l’Italia.

Insomma, guai a giudicare la nostra crisi in maniera avulsa dal contesto, rifuggendo alle responsabilità che c’impone il mondo. Ma guai a credere che qualcuno ci possa togliere le castagne dal fuoco con un ipotetico piano Marshall. Nemmeno la Cina, che pure può darci una grossa mano, può essere trasformata con un voltafaccia all’italiana (vi ricordate l’allarme di Tremonti contro i rubinetti e le pantofole in arrivo dal Drago?) da diavolo nero in cavaliere bianco. Già tre anni fa si fece un gran parlare sugli investimenti di Pechino in Grecia, nel porto del Pireo in particolare. E qualcosa si è fatto, ma la Grecia resta al collasso.

Tocca a noi muoversi, insomma. Ma in che modo? Ci vuole un’altra manovra? O qualche colpo di genio di Tremonti, in fuga da Montecitorio per trovare ispirazione a Washington (che è pur meglio di qualche valle del Trentino in compagnia degli amici padani)? Per carità, evitiamo gesti inconsulti. L’Europa, anzi il mondo, non ci chiede nuovi giri di valzer. O altre evoluzioni alla Gattopardo per impressionare i creduloni, riempire le prime pagine o fare “audience”. No, si accontenta di molto meno: mettere in pratica, ad esempio, quel che si è deciso. In tempi ragionevoli agli occhi delle persone di buon senso. Senza trovate da furbi o da azzeccagarbugli. Semmai, cercando di salvaguardare quella credibilità che è merce corrente a Madrid, dove la classe dirigente ha risposto con grande dignità all’emergenza (cosa che i mercati hanno apprezzato) e che in Italia è merce sempre più rara.

È la credibilità, un bene prezioso che vale più di un taglio della spesa, quello che manca al nostro sistema: a luglio, quando il gioco si è fatto duro, i mercati hanno assistito con stupore allo sgretolamento dell’immagine di Giulio Tremonti, fino ad allora considerato il riferimento e la garanzia del Paese. Intanto, non è passato giorno senza nuove contestazioni a destra o a sinistra, mai accompagnate da un gesto di cambiamneto, volontario o coatto. Con queste premesse, chi ha voglia di comprare un Btp o il titolo di una banca italiana seppur più solida della cugina francese?

Non dimentichiamo la lezione della Grecia. Il vero collasso non dipende dall’assenza di quattrini, bensì dalla constatazione, dopo anni di interventi straordinari, che la società greca non risponde alle sollecitazioni del resto d’Europa: l’evasione aumenta anziché calare, a causa dell’esasperazione di chi paga le tasse; le privatizzazioni, più volte annunciate, restano sulla carta; il personale nei ministeri aumenta, invece che calare. Insomma, cresce la voglia di voltare le spalle all’Europa, sottovalutando le conseguenze disastrose della scelta. Così come cresce a Nord la voglia di liquidare Atene senza troppi complimenti, nonostante costi non inferiori.

Se lo stesso atteggiamento prendesse piede dalle nostre parti, a danno di chi investe e produce e a vantaggio delle tante posizioni di rendita, anche quelle non ricche delle pensioni di anzianità (non dimentichiamo che 14 milioni di italiani riceveranno una pensione superiore a quanto versato) sarà un disastro vero. Ma ci vuol tanto a raccontarlo agli italiani?

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