European Financial Stability Facility (EFSF): una sigla altisonante per un concetto molto semplice; si tratta del Fondo salva Stati. Esiste dal maggio del 2010, ma è in luglio che il Consiglio dei ministri delle Finanze dell’Unione Europea (Ecofin) ha deciso di dargli ulteriori poteri, portarlo a 440 miliardi di euro e farne lo strumento che, in questi tempi di crisi, possa effettivamente impedire agli stati sull’orlo del default di compiere un solo passo in avanti. La Germania, giovedì, voterà per ratificare la decisione. «Un voto fondamentale. Le iniziative dell’Ecofin vanno ratificata all’unanimità da tutti i Paesi dell’Unione. Ma quello tedesco, in casi di questo genere, ha un peso specifico molto più rilevante» spiega, interpellato da ilSussidiario.net Carlo Secchi, Professore di Politica economica europea presso l’Università Bocconi. Un voto decisivo, quindi, cui dovrà seguire quello delle altre Nazioni. Poi, a stretto giro, si ricomincia. Dal G20 di Washington è trapelata l’intenzione di dar vita ad un mastodontico salvataggio dell’euro. L’intenzione – particolarmente caldeggiata da Usa, Fmi e Cina – sarebbe quella di mettere sul piatto 3mila miliardi di euro. Serviranno a implementare ulteriormente il fondo e a tutelarci dai rischi del default pilotato della Grecia (previsto per i primi di novembre), aumentando il capitale di alcune banche.



In sostanza, se la Grecia fa crac, precipitano con essa le banche nei confronti delle quali Atene è maggiormente esposta, e con le banche si trascina giù, a catena, l’intero sistema. Il piano riguarderebbe 16 istituti di credito in particolare che, con il capitale aumentato, non sarebbero più alla mercé dei pericoli dell’insolvenza greca. «Anche questa iniziativa dovrà passare dal consiglio dei ministri delle Finanze dell’Eurozona, dove ciascuno porterà contributi tecnici di vario genere. Se l’Ecofin giungerà ad un accordo tecnico e politico, sarà la volta, come per il fondo salva Stati, del voto dei Parlamenti nazionali», afferma Secchi. E’ a quel punto che si decidono i giochi. «Se un solo singolo Stato decidesse di non ratificare la decisione, salvo che si decida di inserire clausole di salvaguardia, il piano salta». Ovviamente, quello Stato non la “passerebbe liscia”.



«La Nazione che dovesse mettersi di traverso, così come per la ratifica della decisione sul Fondo salva Stati di luglio, dovrà trarne le estreme conseguenze politiche. In sostanza, significherebbe porsi fuori dall’euro». Non si capisce, tuttavia, perché un singolo stato dovrebbe dire “no”. «Il denominatore comune di decisioni di questo genere è un alto tasso di egoismo e miopia. Non si considerano, infatti, gli enormi vantaggi che derivano da un’Europa unita, anche sul piano economico». Nel caso in cui, invece, fosse la Germania ad esprimersi negativamente, lo scenario si ribalterebbe.



«Questo sancirebbe la fine dell’unione monetaria».  Il motivo per il quale il parere tedesco è così determinante, non è difficile da immaginare. «Da un lato è il paese che contribuisce di più al fondo, dall’altro quello che dovrà metter maggiormente mano al portafoglio laddove si dovesse decidere di allentare la pressione sulla Grecia con formule concordate». Per il professore, il termine “fallimento pilotato” non è del tutto preciso. «Meglio parlare di forme di ristrutturazione dei crediti delle banche tedesche. La stesse che si utilizzano per quelle società che, non riuscendo a far fronte ai propri debiti, concordano con le banche una soluzione che non obblighi al fallimento tradizionalmente inteso.  E’ prevista, in questi casi, l’entrata  dell’istituto di credito nel capitale della società ma, al contempo, la cancellazione di parte dei debiti. Sarebbe meglio, quindi -conclude –  utilizzare la terminologia italiana del concordato preventivo».  

 

(Paolo Nessi) 

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