Pietro Modiano, presidente di Nomisma e della “Carlo Tassara”, ha avuto la sensibilità di un ripensamento sull’effetto dei derivati nella crisi finanziaria che si è aperta nel 2008 e si prolunga tutt’ora. Modiano è un grande banchiere, che ha avuto esperienze ai massimi livelli, come direttore generale di Unicredit, di San Paolo e di Intesa San Paolo. In una recente intervista ha, tra altri argomenti di attualità e di indubbio interesse, affrontato la questione dei derivati, strumento finanziario un tempo esaltato e applaudito, ma ora oggetto anche di forti polemiche. Lo abbiamo sentito per chiedere di appronfondire questa argomento.



Dottor Modiano, lei dice che ci sono stati errori da parte vostra, non tanto nella produzione ma nella distribuzione di questi prodotti finanziari: i derivati. In che cosa consistono esattamente questi errori?

Noi abbiamo fatto principalmente due errori. Il primo è stato quello di sottovalutare l’effetto contabile di una riduzione dei tassi di interesse (parlo del 2001-2003) sui bilanci delle imprese che hanno usato derivati di copertura, cioè che hanno scelto di proteggersi da aumenti di tasso che non si sono verificati. Il grosso delle perdite è avvenuto su questi derivati, e solo in pochi casi su derivati speculativi, che peraltro erano estranei alle strategie di allora. Ma nei derivati di copertura c’è una trappola contabile. 



Ci spieghi.

Quello della copertura dei rischi di tasso con derivati è un’operazione concettualmente semplice, come passare da un mutuo a tasso variabile a un mutuo a tasso fisso, e fatta con i derivati è anche più semplice, perché ci si può proteggere dal rischio di aumento dei tassi senza cambiare il contratto di mutuo sottostante. Ma c’è appunto un problema: un individuo che è passato dal mutuo variabile al mutuo a tasso fisso, se i tassi scendono si dispiace, ma pensa che possano risalire, e sta comunque tranquillo. L’impresa no: la regola contabile prevede che segni come perdite, contabilmente perdite a tutti gli effetti anche se solo potenziali, la somma delle differenze fra il tasso fisso, più alto, e il variabile, diventato più basso, per l’intera vita del mutuo. È quello che è successo nel 2003, quando assunsi la responsabilità non solo della produzione, ma anche della distribuzione. Con tassi in discesa, derivati di copertura stipulati uno o due anni prima segnarono perdite anche sensibili, in funzione della durata e dell’entità della riduzione dei tassi, e da qui la  necessità di ristrutturazione dei contratti per evitare al cliente il pagamento alla scadenza, quindi nuovi derivati e in alcuni casi maggiori perdite. Gli errori si concentrarono nei primi mesi del 2003. Devo dire che allora in molti rimasero sorpresi, anche perché non c’era nessuna esperienza di gestione di situazioni di questo genere, né una normativa adeguata. Ci volle qualche mese per impostare strategie appropriate, far crescere la rete di distribuzione, predisporre nuovi strumenti, e intanto si era generata sfiducia. Questo è stato il primo errore, concentrato sui derivati di copertura dei tassi. 



Il secondo errore?

Il secondo, più generale, è aver sottovalutato i rischi legati a prodotti finanziari che generano commissioni non distribuite sulla vita dei titoli, ma concentrate tutte all’atto del collocamento. Parlo dei derivati, ma anche delle obbligazioni strutturate: qui il rischio, soprattutto se le reti di distribuzione non sono abbastanza specializzate, è quello di un eccesso di offerta di questi strumenti, cui ha posto rimedio solo la normativa cosiddetta Mifid, qualche anno dopo.

Visti i risultati e vivendo come tutti questa crisi che molti attribuiscono all’architettura troppo sofisticata di alcuni prodotti finanziari, difende ancora il principio, lo scopo, per cui è stato realizzato il derivato?

Sono strumenti potenzialmente utili.  Poi tutto si può usare bene o male, con professionalità,  con minore professionalità o addirittura con scarsa professionalità. Questo direi che sta nella natura delle cose. Ma sostanzialmente il derivato è uno strumento flessibile, uno strumento in più per gestire gli equilibri di bilancio di un’impresa o di una banca. Un esempio: se una banca teme che sul mercato si produca un aumento dei rischi può ridurre i suoi prestiti, ma così riduce i suoi volumi di lavoro e le possibilità di crescita dei clienti. Può invece  usare i  derivati – e parlo dei cosiddetti Cds, proprio quelli ritenuti responsabili della crisi del 2008 – per proteggersi dal rischio di credito futuro, e intanto continuare il suo lavoro. Ovviamente, se tutti lo fanno il mercato segnalerà l’aumento dei rischi, e produrrà aumento dei tassi. Ma per ogni singola banca, intanto, c’è uno strumento di gestione in più. Poi, i Cds possono essere usati in modi non appropriati. Ma la colpa non è dello strumento in sé, ma di come lo si usa. E, aggiungerei, di come lo si regolamenta. 

 

In un’intervista di qualche giorno fa, lei ha spiegato che quando ha lasciato Unicredit (penso alla divisione Ubm) il mark to market era rientrato su livelli quasi normali.

 

Stavano rientrando verso livelli più normali, i mark to market erano in discesa piuttosto marcata, e questo nonostante il fatto che le condizioni di mercato non fossero migliorate: i tassi hanno continuato a scendere, ma la disciplina dei processi di collocamento e di ristrutturazione, a cui ho accennato, ha dato una mano ad affrontare bene la generalità dei problemi. Purtroppo non tutti.

 

Lei è uno dei pochi banchieri che ammette degli errori. E questo le rende onore in una situazione come quella che stiamo vivendo. Ora le chiedo: come giudica i processi, non sappiamo esattamente quanti, che si stanno svolgendo nei tribunali italiani sui derivati?

Direi che bisogna giudicare caso per caso. Ci sono situazioni in cui si sono fatti errori e quindi si deve riparare. Ma ci sono anche  casi in cui c’è chi, cavalcando il pregiudizio che si è creato,  a volte pretende di non aver capito ciò che era invece chiaro.

 

(Gianluigi Da Rold)