Si può rimettere mano al sistema previdenziale tenendo specialmente in conto le esigenze delle giovani generazioni? Il tema, uscito dalla porta al momento della “manovra di Ferragosto”, è rientrato dalla finestra quando il 22 settembre se ne è parlato in Consiglio dei Ministri a proposito di programma per la crescita, da presentare entro le prossime due settimane.
L’Unione europea ci chiede di “riformare la riforma” della previdenza che a oltre 16 anni ha mostrato di non avere raggiunto i propri obiettivi: nonostante abbia creato un abisso tra il trattamento dei padri e quello su cui possono contare i figli, non ha arrestato la crescita della proporzione del Pil destinata alla spesa previdenziale: ora supera il 15% e si potrà stabilizzare unicamente se il tasso di crescita dell’economia torna dal rasoterra all’1,8% (secondo le stime del nucleo di valutazione della previdenza del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali) o dell’1,6% (secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato).
La richieste dell’Ue guardano essenzialmente al profilo dell’onere sulla finanza pubblica: si può ridurlo – occorre chiedersi – stabilendo una maggiore equità dell’attuale tra giovani generazioni e quelle più anziane? E si può farlo senza toccare i “diritti acquisiti”?
Cerchiamo di rispondere a queste domande iniziando dall’ultima. I “diritti acquisiti” variano al variare delle condizioni economiche e socio-politiche. La riforma del 1995 (e i suoi ritocchi) hanno inciso fortemente su quelli che sembravano essere i “diritti acquisiti” di tutti i futuri pensionati – da quelli appena entrati nel mercato del lavoro a quelli prossimi alla quiescenza.
Tuttavia, il provvedimento che più ha modificato i “diritti acquisiti” proprio di chi era già in pensione è la modifica del sistema di indicizzazione (aggiornamento degli assegni previdenziali all’andamento di prezzi e salari), una misura apparentemente tecnica, ma che in vent’anni ha trasferito circa 80 miliari di euro dalle tasche dei pensionati a quelle degli enti previdenziali. Mentre in un sistema previdenziale privato i “diritti” dipendono in gran misura dalla capacità di gestione alla luce di un andamento spesso imprevedibile dei mercati, nel sistema previdenziale pubblico i “diritti” sono il frutto di come Governi e soprattutto Parlamenti leggono l’evoluzione economica e sociale.
Sarebbe, però, errato non partire dal complesso di riforme già in atto per vedere come meglio tararle alle esigenze dei giovani. I suggerimenti e le proposte non mancano. Le più organiche sono quelle delineate di recente (inizio settembre) dal Center for Research on Pension and Welfare Policies (CeRP) del Collegio Carlo Alberto dell’Università di Torino. Il documento prende l’avvio dalla situazione immediata delle preoccupazioni (anche europee) per la finanza pubblica italiana e ricorda che la riforma del 1995 non sarà completata, a normativa vigente, prima del 2050. Contiene, quindi, una serie di proposte per giungere all’obiettivo di frenare l’escalation della spesa previdenziale.
Tali misure possono essere anche l’avvio di un riequilibrio intergenerazione. Da un lato, quanto minore è il fardello totale tanto minore può esserlo per chi in un sistema “a ripartizione” è chiamato a portarlo. Da un altro, con pochi ritocchi alle proposte CeRP si può fare molta strada in materia di equità tra generazioni.
In primo luogo, dopo una fase di riforme, occorrono regole che siano immodificabili per i prossimi 15-20 anni in modo da dare un buon grado certezza a tutti – elemento essenziale per programmare il proprio futuro (la pensione è una pensione sulla vecchiaia e programmare la terza età è il principale “diritto” di tutti); ciò può, anzi deve, essere blindato nella legge. In secondo luogo, le regole previdenziali devono essere uguali per tutti dato che il passato ci insegna che nell’eccessiva differenziazione delle regole si annidano privilegi e ingiustizie (ancora oggi vengono concessi ingiustificati trattamenti di favore a categorie di lavoratori quali parlamentari e liberi professionisti con casse autonome, ecc.)
In terzo luogo, i provvedimenti straordinari volti alla riduzione di breve termine della spesa – quali quelli che ci chiede l’Ue, devono essere improntati a un criterio di “giustizia ed equità” e i sacrifici maggiori devono essere chiesti a coloro i quali hanno redditi medio-alti, in particolar modo a coloro i quali hanno beneficiato e beneficiano della maggiore generosità delle regole previdenziali retributive applicate in passato.
In base a questi principi, un riassetto fattibile implica:
1) anticipare l’applicazione del “contributivo” dal primo gennaio 2012, applicandolo a tutti, fatti salvi i diritti previdenziali già maturati che daranno origine a una pensione calcolata con le regole attuali;
2) lasciare flessibilità nell’età di pensionamento: ossia, i lavoratori che hanno almeno cinque anni di contributi (oggi se non se ne hanno venti si perde tutto) devono poter scegliere a che età andare in pensione all’interno di una forchetta compresa tra i 63 e i 68 (eventualmente 70) anni. In caso di pensionamento anticipato prima dei 63 anni, la pensione verrà calcolata interamente con il sistema contributivo e l’accesso alla pensione sarà consentito solo se la pensione supera 1,2 volte l’ammontare dell’assegno sociale. Coerentemente con quanto disposto dalla legge 122/201, si dovrà inoltre prevedere l’adeguamento triennale dei requisiti di età per l’accesso al sistema pensionistico agli incrementi della speranza di vita;
3) chiedere un “contributo di solidarietà” – aggiuntivo rispetto a quello prefigurato nell’attuale “manovra” di finanza pubblica – alle pensioni più alte, specialmente se si tratta di baby pensioni e pensioni di reversibilità. eccessivamente generose;
4) Per il buon funzionamento delle riforme serve l’informazione. È essenziale che l’Inps (e gli altri enti previdenziali) inviino rendiconti periodici ai cittadini in cui siano riportati, per ciascuna posizione previdenziale, la quota di pensione giustificata – in base a criteri di equità attuariale – dalla contribuzione previdenziale effettuata lungo la vita lavorativa e la quota eccedente tale misura. Quest’ultima parte evidenzia infatti quello che può essere considerato il “contributo” della collettività (incluse le generazioni future) alla loro pensione individuale;
5) Risolvere una volta per tutte i problemi ancora aperti in materia di “totalizzazione” dei contributi dei co.co.pro e simili con quelli di dipendenti, poiché la gran parte dei giovani inizia la propria attività come co.co.pro ma prima o poi diventa dipendente. C’è un ddl e una proposta di legge bi-partisan in Parlamento: occorre farle viaggiare.
Queste misure relative alle pensioni “pubbliche” (già in atto in numerosi paesi Ue) devono essere affiancate a un riordino della previdenza integrativa che, tramite fusioni e incorporazioni, porti i 700 fondi esistenti a non più di una cinquantina.