Modificare il Trattato di Maastricht, inserendo come clausola l’esclusione dall’area euro di tutti i paesi che non rispettano i parametri di bilancio richiesti dall’Ue. Per Antonio Martino, economista, deputato del Pdl ed ex ministro di Esteri e Difesa, è l’unica soluzione possibile alla crisi della moneta unica. Sempre che non si voglia prendere in considerazione una dissoluzione totale della valuta europea, che «sarebbe vantaggiosa soprattutto per i paesi più deboli come la Grecia». Mentre sul downgrade di Standard & Poor’s, Martino osserva che l’Italia lo ha meritato solo per metà: è giusto perché la manovra di Giulio Tremonti non favorisce la crescita, ma troppo severo perché la maggioranza su cui può contare il governo è ancora solida.
Onorevole Martino, partiamo dal downgrade di S&P’s. Fino a che punto è meritato?
S&P’s ha abbassato il rating sull’Italia spiegando che, in primo luogo, c’è scarsa crescita e, in secondo, la fragilità della maggioranza blocca ogni possibilità di rispondere alle sfide macroeconomiche. Per ciò che riguarda il primo punto, certamente questa manovra ha ridotto ulteriormente le possibilità di crescita dell’economia italiana. L’aumento delle imposte introdotto da Tremonti indubbiamente rappresenterà un freno alla crescita. Per ciò che riguarda il giudizio di S&P’s sul governo, mi sembra sbagliato e del tutto inappropriato. Tanto è vero che ogni volta che questo esecutivo chiede la fiducia in Parlamento la ottiene.
L’Italia ha bisogno di un’altra manovra?
Assolutamente no. Le manovre aggravano soltanto il problema. Abbiamo avuto manovre fin dal 1986, e in questi 25 anni l’unico risultato è stato quello di fare lievitare il debito pubblico da 450 miliardi di euro, cioè l’85,5 % del Pil, a 1.119 miliardi di euro, cioè il 120%. L’Italia non ha bisogno di nessuna manovra: ha bisogno di riforme.
Quali riforme?
Per esempio, quella del servizio sanitario, che tassa i poveri per dare le medicine gratis a chi povero non è. Inoltre, la nostra età pensionabile è troppo bassa e il numero dei nostri enti locali tende all’infinito, mentre dovremmo pensare a ridurli.
Domani la Germania dovrà decidere se ratificare l’ampliamento del Fondo europeo di stabilità finanziaria. Lo farà?
Sì, purtroppo. La ragion d’essere della moneta unica è infatti quella di sottrarre sovranità monetaria agli Stati nazionali, che negli anni passati ne hanno fatto cattivo uso finanziando la spesa pubblica con l’inflazione. Per porre fine a questo problema, che ha creato le gravi patologie monetarie del XX secolo, la moneta unica europea poteva essere una delle soluzioni. Tanto è vero che il Trattato di Maastricht vieta alla Banca centrale europea di acquistare i titoli del debito pubblico. Cioè proprio quello che sta facendo ora con la scusa di salvare dal default paesi come la Grecia. L’Irlanda, per esempio, è stata costretta ad accettare aiuti al suo sistema bancario, anche se non voleva. Se si prosegue con quest’opera su larga scala, gli effetti simultanei saranno due: la recessione, perché l’euro forte non ci rende competitivi sui mercati internazionali, e l’inflazione, come conseguenza della messa in circolazione di nuova moneta.
Quindi gli aiuti alla Grecia danneggeranno tutta l’Europa?
L’Ue si troverà a dover fare la stessa cosa con il Portogallo, la Spagna e chissà quanti altri Paesi. E il risultato sarà che l’inflazione nell’area euro diventerà un pericolo reale. A oggi non abbiamo inflazione, ed è l’unico effetto positivo della moneta unica. Ma se continueremo a condurre una politica di aiuti agli Stati, sarà una conseguenza inevitabile.
Come valuta la proposta degli Eurobond?
Io sono contrarissimo agli Eurobond. Noi sappiamo che cosa significa attribuire a uno Stato sovrano la facoltà di indebitarsi: prima o poi lo farà al di là di ogni misura ragionevole.
Se né manovra, né Eurobond possono risolvere il problema, qual è la soluzione?
Non esiste nessuna soluzione facile. La prima cosa da fare è modificare il Trattato di Maastricht. È sbagliato comminare multe ai Paesi che non rispettano i parametri di bilancio: se la Grecia non riesce a pagare i suoi debiti, con una multa aggraviamo soltanto i suoi problemi. Vanno invece esclusi momentaneamente dall’Eurozona i paesi che non rispettano i parametri di bilancio: così resteranno solo quelli finanziariamente solvibili.
L’Eurozona si trasformerebbe in un puzzle pieno di buchi…
Già adesso l’area euro non comprende tutti i membri Ue, per esempio il Regno Unito ne è escluso. La mia proposta è l’unica che potrebbe salvare l’euro, ammesso che valga la pena farlo.
Lei è favorevole a un dissolvimento dell’euro?
Sono in tanti a scommettere su questa ipotesi. Al Forum di Cernobbio hanno condotto un sondaggio tra i partecipanti e il 49% degli intervistati ha dichiarato che entro tre anni l’euro non esisterà più. Sarebbe un terremoto monetario nella fase di transizione, ma alla fine tutti i paesi più deboli come la Grecia avrebbero solo da guadagnarci. Atene sta cercando di riequilibrare il bilancio abbassando tutti i prezzi e i redditi interni, e questo causa le violenze di piazza che abbiamo visto. Se avesse ancora la dracma, basterebbe svalutarla per raggiungere lo stesso effetto più rapidamente, e in modo indolore.
È l’unico motivo per cui il dissolvimento dell’euro potrebbe essere la scelta migliore?
No, c’è anche il confronto sfavorevole con il dollaro, che sta incoraggiando le esportazioni americane a danno di quelle europee. Nello stesso tempo l’inflazione negli Usa è da molti anni bassissima. Quindi il potere d’acquisto interno del dollaro è elevato e solido, il valore esterno è diminuito e questo favorisce la bilancia commerciale. L’euro è esattamente nella posizione opposta: il suo valore esterno è aumentato, il suo potere d’acquisto interno è bassissimo. E il risultato è che le famiglie non riescono ad arrivare a fine mese: prima con uno stipendio da due milioni di lire se la cavavano benone, oggi con mille euro fanno la fame.
Da che cosa nasce la forza del dollaro?
Dalla politica monetaria della Fed, che malgrado le follie di Barack Obama è riuscita a mantenere l’inflazione a un tasso basso, inferiore al 3%.
(Pietro Vernizzi)