L’eurobond è sempre esistito. Volete una prova? Osservate l’ormai celebre divario tra il Bund a dieci anni e il suo corrispettivo greco. Nella bufera di questi mesi lo spread tra i due titoli ha superato il secondo decimale – oggi un’obbligazione greca rende il 22% in più di un Bund -, ma basterebbe ripercorrere a ritroso la serie storica per scoprire un fatto interessante (e meno divulgato).
Nel periodo tra l’introduzione dell’euro in Grecia (2001) e lo scoppio delle crisi sovrane (2008) la differenza tra il Bund a dieci anni e l’equivalente greco ha oscillato intorno a una media dello 0,27%, ottanta volte meno dei livelli attuali. Il 18 febbraio 2005 lo spread raggiunse il minimo storico: la forbice era di appena 8 punti base, ovvero lo 0,08%.
Una differenza talmente impercettibile si giustifica solo in un modo: sui mercati obbligazionari i titoli dei paesi Ue erano assimilati a un unico grande gruppo, l’Unione europea appunto. Si trattava, in sintesi, di una forma di eurobond finalizzato al finanziamento dei diversi deficit nazionali, cioè il collaterale fiscale di cui si discute in questi tempi. Il meccanismo si è inceppato nel momento in cui la coesione degli stati membri è andata in frantumi e nel panico generale gli interessi nazionali hanno prevalso sulle soluzioni di lungo periodo. Perché ciò è avvenuto?
In queste settimane una nuova ondata di interventismo napoleonico e le ambizioni di un cancellierato in gran rispolvero ci spingono a credere che il problema siano i soliti paesi spendaccioni. Eppure i conti non tornano: la Spagna ha un debito pubblico pari al 60% del Pil, meglio di Germania e Inghilterra, mentre l’Italia, il cui cds (credit default swap) a cinque anni è il quintuplo di quello olandese, ha un deficit pari al 4,60% del Pil (per la cronaca, il deficit dell’Olanda è al 5,40%, quello britannico al 10,40%).
Numeri alla mano, la storia del rigore e dell’austerità fiscale non regge e i mercati, in mancanza di una spiegazione credibile, corrono all’impazzata. A questo punto resta un’ipotesi: e se in fallimento fosse l’Europa delle burocrazie?
Questa ipotesi spiega almeno due fenomeni: la guerra all’inflazione, vera crociata della Bce, e l’andamento del cambio dollaro-euro dal 2004 a oggi. Per il primo elemento, i banchieri di Bruxelles ci hanno sempre spiegato che per fare una moneta unica ci vuole stabilità dei prezzi. Altrimenti l’inflazione mangerà la crescita (nel sito Bce c’è davvero un cartone animato con un mostriciattolo di nome inflazione che divora l’economia) e le differenze strutturali tra i paesi membri diventeranno troppo importanti per una valuta comune.
Il cambio dell’euro rispecchia questa impostazione: una guerra all’inflazione significa una moneta forte e dal 2004 al 2008 l’euro si è apprezzato di quasi il 40% sul dollaro. Purtroppo per gli scienziati della finanza – e per tutti quelli che comprano il pane in euro – il mostriciattolo inflazione non è un batterio coltivato in laboratorio. Inflazione, crescita e i sacrifici che siamo chiamati a sostenere ogni giorno sono legati a doppio filo; per cui quello che è a un burocrate può apparire come un capolavoro, alla prova dei fatti può rivelarsi una zavorra insostenibile.
Il risultato – insieme alla sua insostenibilità – è oggi evidente. Con una politica monetaria austera e le esportazioni bloccate dal super-euro, gli stati membri hanno cercato la crescita attraverso un’espansione nell’area euro. È un gioco a somma zero che la Germania ha capito già dagli anni ‘90 e le riforme attuate sul mercato del lavoro le hanno dato ragione: la ricetta Rürup – crescita salariale vincolata alla crescita della produttività – ha reso l’economia tedesca la più competitiva dell’Ue. Oggi, però, con un euro debole e gli spread sui titoli di stato ai massimi storici la situazione è insostenibile per tutti.
Non è la fine del mondo, tantomeno dell’Europa. La moneta unica può sopravvivere e anzi dall’unione monetaria l’euro può portarci al passo successivo, l’unione fiscale. Ma una raccolta tributaria condivisa non può diventare l’ennesima sovrattassa da aggiungere alla già pesante pressione fiscale nazionale.
Come fare? Prima delle tecnicità, un’osservazione. Al centro del progetto di un’Europa comune ci sono i popoli che la abitano, non le burocrazie. E per riaffermare questa centralità, la storia delle monete ci viene in aiuto. Durante gli assedi, una delle priorità per gli assediati è rompere l’isolamento attraverso l’emissione di nuova moneta da impiegare nei rifornimenti. Anche l’Europa è sotto assedio e il progetto comune, così come la moneta unica, ha bisogno di tempo e nuova credibilità. L’attualità non fa eccezione: anche nel nostro caso la misura d’emergenza sta nell’emissione di nuova moneta. Nello specifico, l’Europa deve stampare la banconota da un euro.
Per due motivi. Il primo è trasformare la moneta solida, simbolo dell’austerità, in una moneta cartacea, simbolo di una gestione “leggera” dell’inflazione. In questa nuova condizione, l’Europa potrà liberarsi della gabbia di Maastricht – emblema dell’Europa burocratica – e puntare a un modello di integrazione che sappia aprirsi all’esterno, anche attraverso il sostegno monetario alla crescita e alle esportazioni. E se l’obiezione a questo progetto è la paura dell’inflazione, allora torniamo agli stati nazionali: sulla via di un’Europa unita troveremo sfide ben peggiori dell’aumento dei prezzi.
Il secondo motivo è anche una provocazione: sull’euro dobbiamo metterci la faccia. L’Unione europea deve chiamare a raccolta i suoi popoli e chiedere a ciascuno di loro quale padre fondatore, uno per ogni Paese, sarà raffigurato sulle diverse stampe della banconota. È un atto politico da compiere con coraggio e realismo (in molti paesi europei le elezioni nazionali sono alle porte). Ma è soprattutto l’opportunità di un nuovo inizio, legittimato dalla scelta di milioni di persone. E una volta ripartiti verso un’Europa dei popoli, i sacrifici quotidiani, il prezzo del pane e lo spread di un eurobond avranno tutti una prospettiva chiara e alla lunga sostenibile.