In un convegno organizzato da Bloomberg a New York a inizio settimana Wilbur Ross, uno dei più importanti uomini d’affari statunitensi, ha voluto soffermarsi sulla ripresa della Tigre celtica, l’Irlanda, la cui economia è in questi giorni premiata dalla finanza internazionale, che ha fortemente ridotto (dal 13% all’8%) i tassi chiesti per prestar soldi al debito pubblico di Dublino. “La ragione per cui l’Eire ripartirà molto prima del club Med – ha detto – è una sola: la crisi irlandese nasce dagli errori scriteriati del sistema bancario, ma l’economia non ha bisogno di nuove regole. Superata la digestione, sono già ripartiti. L’Europa del Sud, invece, resta ingessata”.
Nelle stesse ore in Italia si recitavano più pièces teatrali degne di un’arena serale di uno dei tanti club Med. In attesa di un voto scontato in aula sulla richiesta d’arresto per un ministro, il titolare dell’Economia e il Premier hanno discusso, in mezzo alla tempesta dei mercati, su “cabina di regia”, “gestione collegiale“ o autonomia del dicastero nelle scelte.
Molto fumo e poco arrosto, verrebbe da dire. Salvo che l’arrosto c’è, ma viene cucinato in quel di Francoforte. La pubblicazione della lettera di Jean-Claude Trichet e di Mario Draghi al governo, datata 5 agosto, ne è un’eloquente conferma: per avere diritto all’intervento della Bce sui Btp, in quel momento (ma anche oggi) a rischio naufragio, l’Italia doveva impegnarsi a fare quelle riforme mille volte annunciate, mille volte rinviate all’insegna del più puro gattopardismo: senza liberalizzazioni e privatizzazioni, un mercato del lavoro più flessibile e un taglio a una macchina pubblica elefantiaca e una revisione del sistema pensionistico, l’Italia non poteva che rassegnarsi al tunnel del declino irreversibile. A danno dello sviluppo, delle nuove generazioni e, date le dimensioni della nostra economia, a detrimento dell’intera area euro. Di qui un diktat o, se volete, la vera manovra. Anzi, di più: il programma di governo fino al 2013, data di scadenza naturale della legislatura.
Quell’arrosto Giulio Tremonti non l’ha digerito. E così, poco più di un mese dopo, ha ripresentato il conto: no al pupillo di Draghi in Banca d’Italia, quel Fabrizio Saccomanni che in qualità di Direttore generale ha fatto parte a pieno titolo dello staff di Draghi e promette di tenere ben aperta la linea di comunicazione tra Roma e Francoforte, destinata a essere sede di una sorta di supergoverno d’Italia, almeno finché Bruxelles, cioè l’autorità politica europea, non assuma pari autorevolezza, prestigio e potere.
Guai al trionfo della legge “mercatista” ha sibilato Tremonti, accusando Draghi in sostanza di essere la longa manus della Germania e al tempo stesso (quasi un miracolo, visti i conflitti in atto) delle grandi banche d’affari di Wall Street. Occorre riaffermare il primato della politica, cioè imporre in Banca d’Italia il direttore generale del Tesoro, emanazione della politica tenuta dal dicastero del’Economia. E pure “milanese” (di nascita, da non confondersi con l’ex braccio destro del ministro) come fa notare Umberto Bossi.
La disputa tra Colbert e i banchieri della Corona è un tema interessante. Roba da rifarci il prossimo bestseller dello scrittore Tremonti, cui non difetta la penna brillante. Ma l’arte di governo è fatta di opportunità e di sensibilità. Né può essere astratta dal tempo. A carico di Vittorio Grilli, persona di grande valore, osta un non piccolo difetto: non toccava a lui vigilare sul rispetto delle regole sulle partecipazioni pubbliche, a partire da Finmeccanica? Molti degli “strappi” attribuiti al deputato Marco Milanese, delegato imporpriamente dal ministro a occuparsi di queste materie, si sarebbero evitati se Grilli avesse battuto i pugni sul tavolo. È la persona giusta, dati i precedenti, cui affidare la Vigilanza sulle banche?
La questione non è teorica perché, ironia della sorte, in contemporanea al braccio di ferro su via Nazionale, esplode il caso Bpm. Sta emergendo, in buona sostanza, che una consorteria che dispone del 4% del capitale dell’istituto di piazza Meda ha imposto la sua legge alla gestione dell’istituto in ogni suo snodo sensibile. Con pessime conseguenze per il futuro della banca, una delle più importanti per i destini dell’area economica milanese. Contro quest’andazzo si è schierata la Banca d’Italia assieme alle segreterie nazionali del sindacato. Con risultati a dire il vero modesti, per ora. Staremo a vedere come evolverà il film di qui al 22 ottobre, data clou per un aumento di capitale necessario, ma comunque troppo ridotto per voltar pagina per davvero.
Nel frattempo non si può fare a meno di notare che il presidente di Bpm, Massimo Ponzellini, è l’unico banchiere che ha potuto contare, al momento della sua nomina (dopo trattativa privata e congrui aumenti di stipendi concordati con i soliti Amici della Bpm), sulla spinta congiunta di Tremonti e di Bossi. Non è stata una bella impresa, tant’è che il ministro ha preso le distanze. Ma i precedenti suggeriscono un bel passo indietro alla scelta della “politique d’abord” davanti a una banca.
È la precondizione per uscire dal Club Med più di qualsiasi manovra o sacrificio. L’Italia ha varato, tra tagli e riforme, manovre per 250 miliardi tra il 2009 e il 2014. Cifre più che sufficienti. Purché si faccia qualcosa. Ovvero che si recuperi la credibilità della tigre celtica smettendo i panni del gattopardo.