Più della Bce che minaccia di non comprare più i nostri bond e spedisce lo spread alle stelle un’altra volta. Più degli Usa che, nel silenzio generale, in meno di un mese sono riusciti a creare altri 200 miliardi di dollari di debito e ora si ritrovano un’altra volta con il problema del debt ceiling (ovviamente, se la Fed il 20 settembre darà il via libera alla terza tranche di QE, ogni problema sarà risolto o silenziato. E poi ci sono i fondi pensione federali a fare da bancomat a Tim Geithner). Più della Grecia che ormai è fallita ma nessuno ha il coraggio di dirlo. Più dei mercati che crollano o dei dati macro che parlano a chiare lettere di recessione globale alle porte.
Più di tutto questo, a farci temere un credit event in stile Lehman Brothers c’è il braccio di ferro, sotterraneo ma feroce, tra autorità europee e Fondo monetario internazionale, il vero motivo per cui le banche crollano e ieri i titoli legati a questo comparto hanno toccato a livello europeo il minimo da ventinove mesi! Dopo le critiche lanciate al direttore Christine Lagarde per il suo discorso a Jackson Hole, in cui si invitavano saggiamente le banche europee a un’extra capitalizzazione per ulteriori 200 miliardi di euro, l’Europa è tornata all’attacco in ordine sparso e ha criticato la bozza dell’ultimo Global Financial Stability Report (GFSR), la cui pubblicazione definitiva è attesa entro le prossime due settimane.
Alla base della disputa, i criteri di prezzatura. Le stime dell’istituto di Washington utilizzano infatti i prezzi dei cds (credit default swaps) per determinare il valore di mercato dei bond governativi dei tre paesi che ad ora hanno richiesto aiuti finanziari (Irlanda, Grecia e Portogallo) oltre a quelli delle nazioni recentemente finite sotto attacco, come Italia, Spagna e Belgio. Basandosi su questo metodo di calcolo, il Fondo Monetario Internazionale afferma che l’impatto dei titoli di debito sovrani sul mercato riduce alla fine la componente core del capitale delle banche europee di 200 miliardi di euro, ovvero di un valore del 10%-12 per cento. E l’impatto sarebbe addirittura maggiore, forse doppio, se venissero calcolati anche gli effetti negativi sulle banche europee che detengono asset nei capitali di altre banche.
Per Elena Salgado, ministro delle Finanze spagnolo, “Il punto di vista del Fmi non è neutrale. Riescono a vedere solo il lato negativo del problema ed è già la seconda volta che accade”, facendo direttamente riferimento è al report pubblicato nell’ottobre 2009, dove si stimava che le banche europee avevano conteggiato solo 347 miliardi di dollari degli 814 miliardi di probabili perdite provocate dalla crisi finanziaria: in seguito il fondo si era trovato costretto a rivedere le stime sulle perdite di un quarto. Peccato che, un paio di dati questa volta facciano propendere per l’accuratezza delle denuncia dell’Fmi e quindi del suo allarme. Un’analisi mark-to-market, infatti, sarebbe in grado di spiegare molto del recente crollo del prezzo dei titoli bancari europei, tra cui quelli francesi e tedeschi, che hanno una forte esposizione al debito dei vari paesi membri: elementare, piatto, forse brutale ma queste sono le stime che al momento stanno utilizzando gli hedge funds. E non solo.
“Molte banche europee rischiano di non sopravvivere se saranno costrette a rivedere il valore di bilancio dei titoli del debito in loro possesso agli attuali valori di mercato”. questo il giudizio del numero uno di Deutsche Bank, Josef Ackermann. C’è però ancora di più nel nervosisimo sempre crescente dell’Fmi. Le banche centrali e altri organismi ufficiali hanno parcheggiato somme record di dollari presso la Federal Reserve, chiaro indicatore di una perdita di fiducia nelle banche commerciali. I numeri che giungono dalla Fed di St. Louis, infatti, non si prestano a interpretazioni: i fondi di riserva da parte di conti esteri ufficiali sono infatti raddoppiati dall’inizio dell’anno, con un picco enorme in contemporanea con il contagio a Spagna e Italia della crisi del debito a fine luglio.
Il totale, ad oggi, è di poco superiore a 100 miliardi di dollari, una goccia nel mare della somme investite in obbligazioni come detenzioni di riserve estere ma per Simon Ward della Henderson Global Investors “tutto questo dimostra una pervasiva erosione della fiducia nel sistema bancario europeo. Le banche centrali sono preoccupate per la sicurezza dei loro depositi e quindi stanno depositando il denaro presso la Fed”. Per capirci, siamo ai livelli che precedettero il crollo di Lehman Brothers. Di più, le banche europee si sono ridotte a farsi prestare stanziamenti in dollari a una settimana, pittosto che a sei o dodici mesi come al solito.
Un altro pattern perfettamente identico a quanto accadde nel 2008, con la differenza che questa volta che le principali banche centrali hanno linee di swap col dollaro attive. Se il mercato di finanziamento in dollari dovesse congelarsi, allora la Bce potrebbe agire come un backstop, ovvero porsi a protezione degli istituti esposti. Per l’ennesima volta. La Banca per i Regolamenti Internazionali ha reso noto che le banche europee e britanniche hanno un gap di finanziamento in dollari di 1,8 trilioni derivante dall’espansione globale durante il boom che dipende sul finanziamento in dollari e va incontro a roll-over obbligato. Questo non sarebbe un problema in condizioni normali ma le dinamiche di finanziamento possono bloccarsi durante una crisi.
Ecco perchè questa volta, il criterio mark-to-market dell’Fmi e il suo allarme sono davvero seri, anche perché il Fondo non ha sbagliato una sola volta in passato ma due: la prima per eccesso ma la seconda per pesante difetto, quando all’inizio della crisi quantificò le perdite potenziali fino a 600 miliardi di dollari e, ad oggi, hanno già raggiunto 2,1 triliardi. Inoltre, le banche europee stanno ancora lottando per avere accesso ai 7 triliardi di dollari dei money market funds americani ma la scorsa settimana Fitch ha confermato che gli istituti italiani e spagnoli sono stati tagliati fuori.
E qui interviene la questione greca, poiché fino a quando questa manterrà il suo status di capro espiatorio di tutti i guai e l’accanimento terapeutico nei suoi confronti proseguirà, gli investitori continueranno a vedere una possibile fine ai bagni di sangue e le banche europee resteranno intoccabili. Se Atene andrà a gambe all’aria, ovvero dovrà ristrutturare il suo debito attraverso un default più o meno controllato, nessuno sarà più al sicuro. E, purtroppo, quel momento appare sempre più vicino. Venerdì scorso la sospensione delle trattative tra trojka Ue-Bce-Fmi e il governo greco, ufficialmente per dieci giorni, ha fatto schizzare il rendimento del decennale greco al 75 per cento e quello del bond a 2 anni a circa il 50 per cento, oltre ad affossare tutte le Borse europee insieme al dato sulla disoccupazione Usa.
Un economista dell’Fmi interpellato dal Wall Street Journal ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Mi aspetto un pesante default prima di marzo, forse quest’anno e potrebbe arrivare con questa revisione del piano. Le speranze di successo del secondo salvataggio sono minime”. Ne hanno sempre maggiore consapevolezza in Germania, da ieri con un governo ancora più debole dopo la netta sconfitta di Angela Merkel e del suo partito alle elezioni amministrative in Meclenburgo e in attesa domani della sentenza della Corte costituzionale sulla liceità, in base alla legge tedesca, del primo salvataggio greco. Christian Lindner, segretario generale dell’Fdp, i liberali alleati della Merkel, ha chiaramente detto che “Atene sta mettendo in pericolo il concetto di solidarietà europeo. La rottura dei colloqui fra la trojka e la Grecia è un colpo alla stessa stabilità dell’euro”.
E non è tutto. Un altro membro della Fdp, Hermann Otto Solms, vice-presidente del Bundestag e membro del Comitato economico del parlamento, ha reso noto che “visto che la Grecia non pare in grado di gestire il suo problema con il debito, dovrebbe considerare di lasciare l’euro. Questa potrebbe essere una prospettiva migliore, sia per l’unione monetaria che per la Grecia stessa”. Il problema è che il mercato sta già oggi prezzando l’ipotesi di una Grecia che dice addio al’eurozona.
Come spiegare, altrimenti, lo spread Libor-OIS a 70,6 punti base (su di 5 punti overnight), il livello più ampio dall’aprile 2009 (per OIS – Overnight Index Swap – si intendono i tassi fissi trattati contro l’overnight medio del periodo preso come riferimento: in pratica è un contratto di swap su scadenze monetarie), un qualcosa che ricorda tremendamente il periodo pre-subprime? Oppure il valore del Libor in crescita perenne per 28 giorni consecutivi, lo stretch più lungo dal 2005 e al livello più alto dal 19 agosto del 2010? Oppure ancora lo spread tra il minimo e il massimo del Libor sui depositi in dollari a 3 mesi, al livello più ampio dall’inizio dell’anno? In parole povere, in condizioni normali lo spread sia dei Libor che dei tassi dei Depositi contro OIS è tendente a zero. Quando invece sta per esplodere una crisi, come ad esempio quella dei subprime o quella interbancaria sul finanziamento dei giorni nostri, il differenziale si apre, perchè nei tassi monetari (sia Depositi che Libor) deve esserci un “di più” per fronteggiare il rischio di controparte. E più cresce quel “di più”, più la situazione sta per precipitare.
Ma quali sono le banche che stanno incontrando maggiori difficoltà a procurarsi finanziamenti in dollari? Trattandosi di una dinamica di ampliamento tra Libor (acronimo di London Inter Bank Offered Rate, rappresenta il fixing dei depositi monetari – con scadenza massima 12 mesi – sulla piazza londinese) e OIS di Libor e tassi di deposito in dollari (entrambi sulla durata trimestrale e sempre in valuta americana), viene automatico pensare alla Gran Bretagna. In effetti, una è la britannica e nazionalizzata Royal Bank of Scotland, le altre due invece sono Csfb e Ubs, ovvero le due principali banche svizzere, quasi una nemesi, un contraltare, un’allegoria bibllica al contrario, un “i primi saranno gli ultimi”.
Se la Grecia fa default, le prime a cadere saranno proprio quelle due banche svizzere: successo quello, potrà succedere di tutto. Per una volta, diamo retta al catastrofismo dell’Fmi. Prima che sia troppo tardi.