Settimana nuova, nuovo ed ennesimo record per i depositi overnight a un giorno delle banche dell’eurozona presso la Bce. Gli istituti di credito, il 6 gennaio, hanno parcheggiato all’Eurotower 463,6 miliardi contro i 455,3 miliardi del giorno prima, il livello più alto dalla nascita dell’euro. Ma non solo, cari lettori: i prestiti alle banche italiane concessi dalla Bce a dicembre sono balzati a 209 miliardi di euro contro i 153 del mese precedente. È quanto si legge negli aggregati di bilancio della Banca d’Italia, che certificano così l’effetto della decisione dell’istituto di Francoforte, del 21 dicembre, di prestare 489 miliardi di euro a tre anni a 523 banche europee. E le banche cosa fanno con quei soldi, aiutano famiglie e imprese? No, li parcheggiano alla Bce rimettendoci anche dei soldi sul differenziale d’interesse: un atteggiamento inaccettabile a fronte del credit crunch già in atto nel nostro Paese. Speriamo, quindi, che il governo trovi il tempo e la voglia di rispondere alla mozione presentata ieri da un gruppo di deputati del PdL che chiedeva lumi sulla modalità di investimento da parte delle banche italiane degli oltre 100 miliardi di euro all’1% di interesse ottenuti da Francoforte.
A mio avviso risposte non ce ne saranno, almeno fino al 20 gennaio, data entro la quale finirà il balletto macabro dei diritti per l’aumento di capitale di Unicredit, anello debole della cassaforte italiana (Mediobanca, Generali, Rcs) sotto attacco di poteri non so se forti ma certamente opachi. Al governo, però, ci permettiamo sommessamente di far notare, come rendeva noto in un articolo di domenica Il Sole 24 Ore, che per i big del sistema bancario italiano metà dei bond detenuti sono senza rischi, viste le scadenze a breve.
Fatta salva Mps, la quale sta soccombendo alla logica delle scommesse lunghe, avendo nel portafoglio obbligazionario da 30 miliardi di euro il 60% di titoli oltre i dieci anni, le altre banche detengono quasi tutte Btp a breve: sui 107 miliardi di titoli del Tesoro detenuti da Unicredit e Intesa Sanpaolo, 48 scadono entro settembre di quest’anno. Insomma, non erogano credito perché non vogliono: e il governo deve fare qualcosa (anche perché ha posto lui la garanzia sulle obbligazioni che le banche hanno emesso e poi autosottoscritto per utilizzarle come collaterale presso la Bce per ottenere liquidità. Senza il bollino blu del governo, quelle obbligazioni sono carta da parati).
Detto questo, quella che si è appena aperta sarà una settimana fondamentale per l’eurozona. Non tanto e non solo per i vertici bilaterali tra i principali capi di governo, inaugurati venerdì dall’incontro tra Mario Monti e Nicolas Sarkozy (con tutto il rispetto per Francois Fillon, non è lui a prendere le decisioni a Parigi), quanto per le delicate aste obbligazionarie sovrane che si terranno a partire da ieri mattina e fino a venerdì. Ieri la Germania ha collocato sul mercato 3,9 miliardi di titoli di Stato a sei mesi con un rendimento negativo, visto che l’interesse offerto è stato pari al -0,0122%, con una domanda di 1,82 volte l’importo in asta (se lo spread Btp-Bund non è esploso non è per l’effetto taumaturgico dell’intervista-scendiletto di Fabio Fazio a Mario Monti, ma solo perché ieri mattina Goldman Sachs ha consigliato ai suoi clienti di vendere Oat francesi e comprare Btp decennali).
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Secondo gli operatori, la Germania «è ormai l’unico Paese in area euro percepito come sicuro e quindi sui titoli tedeschi viene parcheggiata la liquidità seppure questi abbiano un costo», questo nonostante ieri la Bild rendesse noto attraverso un forum di economisti bancari che Berlino è già in recessione, con l’economia in contrazione nel primo trimestre del 2012 e gli aumenti salariali sotto il 3%. A livello generale, segnalano gli operatori delle sale trading, c’è «una fame di titoli di Stato quasi esclusivamente di breve o brevissimo termine». Chissà come mai, forse perché la finestra di finanziamento all’1% di interesse della Bce è a 36 mesi? Oggi l’Austria emetterà sul mercato debito per 1,3 miliardi di euro in bond a 5 e 10 anni, mentre giovedì 12 ci sarà un doppio appuntamento: il Tesoro italiano emetterà Bot a 3 e 12 mesi per 8,5 miliardi, mentre quello spagnolo metterà sul mercato Bonos a tre e cinque anni, oltre a Cupòn corto a sei mesi. Venerdì 13, poi, gran finale con l’asta dei nostri Btp a 3 anni per 7,5 miliardi di euro.
Come è ovvio, l’intreccio politica-mercati sarà fortissimo in questi giorni e Mario Monti lo sa, visto il suo attivismo in sede europea nella speranza di giungere a un ammorbidimento delle posizioni tedesche o a un accordo reale sul fondo salva-Stati che permetta una diminuzione dello spread in concomitanza con le aste di giovedì e venerdì. Visti i presupposti, ovvero l’irrigidimento di David Cameron sul fronte della Tobin Tax rilanciata con forza nel weekend dalla Francia, appare molto difficile ricondurre Berlino a più miti consigli sui parametri di rientro dal debito o sul finanziamento del fondo Efsf oppure ancora sull’accelerazione della sua trasformazione in meccanismo Esm con potenza di fuoco sia cash che in garanzie (la Merkel, tanto per cautelarsi, nel frattempo ha riattivato il fondo Soffin per il salvataggio delle banche tedesche a partire dal prossimo marzo). Politica a parte, questa settimana tra bonds e titoli a breve termine saranno tra i 35 e i 40 i miliardi di debito – tra i 16 e i 20 italiano – che andranno sul mercato e le maturazioni e i pagamenti di coupon copriranno circa i tre quarti delle emissioni: insomma, aste di fondamentale importanza, forse più psicologica che effettiva.
Se le turbolenze degli spread e le dimensioni delle rispettive economie vedono l’occhio degli investitori particolarmente attento alle aste italiane e spagnole, io vi invito a grande riflessione su quale sarà l’esito dell’emissione austriaca di questa mattina. Sia per l’importo (per una nazione con un’economia comunque piccola), sia per la lunghezza delle scadenze offerte (entrambe per oltre i tre anni di garanzia indiretta offerta dal programma di prestito Ltro della Bce), sia per le tensioni che l’Austria sta conoscendo in questi giorni a causa delle esposizioni delle proprie banche in Ungheria, nuovo focolaio di instabilità in Europa. Non a caso lo spread sul decennale austriaco la scorsa settimana è cresciuto di 55 punti base e anche venerdì scorso, nonostante i toni ammorbiditi del premier Orban, il differenziale sul Bund a 10 anni è salito di altri 9 punti base, il più alto tra tutti i paesi europei in una giornata notoriamente di volumi molto sottili.
Evito di ragguagliarvi sulle emissioni di debito greco che si terranno questa settimana, visto che le ritengo ormai farsesche, se non addirittura criminali. La questione ellenica, infatti, si sta avvitando nel più completo e colpevole silenzio delle istituzioni europee. Due le chiavi. Prima, la situazione fiscale del Paese al termine dello scorso anno. Il target era quello di un deficit al 9% del Pil a fronte del 10,6% del 2010, ma la crescita più debole del previsto – il Fmi stima una contrazione del 6% dell’economia – potrebbe vedere quel dato in overshooting, ovvero oscillare in un range tra il 9,5% e il 10,7%, un qualcosa che significherebbe addio alle prossime tranche di aiuto da parte di Ue-Bce-Fmi, sempre che le minacce della troika siano reali.
Ecco spiegato, quindi, lo sprint del primo ministro Papademos, il quale intenderebbe intervenire su pensioni integrative, tagli alla difesa e al welfare (inclusi medicinali e benefit medici) e chiusura di organismi governativi (authorities e non solo) per ridurre lo stock di spesa. Ma voci sempre più insistenti vorrebbero lo stesso Papademos sempre più frustrato all’interno del Consiglio dei ministri e decisamente contrariato per la richiesta di voto a fine marzo su cui l’opposizione di Neo Democratia sembra non voler transigere o discutere. Il tecnico Papademos si è rapidamente tramutato in politico e non vuole mollare la poltrona? No, la ragione della sua insoddisfazione per un voto entro due mesi è quasi interamente legata al secondo punto nodale del futuro prossimo della Grecia, ovvero l’accordo sul coinvolgimento del settore privato su base volontaria, gli haircuts che hanno mandato in fumo il concetto di mercato a rischio zero per l’eurozona a partire dallo scorso luglio. Ciò che sembrava una pura formalità fissata a un taglio dei rendimenti del 50% si sta rivelando invece un estenuante braccio di ferro con nessuno dei due contendenti deciso a cedere un solo millimetro.
Non a caso, lo spaventato presidente della banca centrale di Cipro – Paese quasi simbiotico con la Grecia – venerdì scorso sul Financial Times avanzava la proposta di eliminare del tutto la partecipazione del creditori privati ai tagli, questo per aiutare a ristabilire la fiducia degli investitori nell’eurozona e per abbassare i costi di finanziamento per gli Stati. Come andare incontro alle esigenze finanziarie della Grecia, però? Le altre nazioni europee dovrebbero offrire alla Grecia prestiti a 30 anni a bassi tassi d’interesse: dubitiamo che la Merkel sia d’accordo. Ma in questa direzione, a mio avviso, potrebbe andare la missione diplomatica di Mario Monti, sia verso la Francia che verso la Gran Bretagna. Il coinvolgimento del settore privato, di fatto, fu imposto dalla Merkel a Sarkozy, il quale come molti altri paesi e la Bce stessa, non era affatto persuaso né della sua necessità, né della sua funzionalità: insomma, la Grecia era un caso unico e limite, non bisognava danneggiare la reputazione dell’intera eurozona attraverso haircuts per il settore privato.
Tanto più che, a oggi, la remissione del 50% del debito su cui si sta discutendo, presuppone un haircuts più alto sulla base del net present value, ovvero basata sui coupon pagati dai nuovi bond che i creditori privati riceveranno in cambio. Un coupon al 4%, più o meno quanto paga la Francia su un bond trentennale, vedrebbe infatti un haircut sul net present value del 70%. Peccato che il tempo stringa e i calcoli fatti dal governo Papademos vedrebbero un memorandum d’intenti da siglare entro fine gennaio e un accordo specifico entro metà marzo, termine quest’ultimo fondamentale visto che la quinta tranche di aiuti che in un primo tempo doveva giungere a fine gennaio sarà posticipata a marzo, sia per lo stallo nelle discussioni sul secondo piano di salvataggio (legato appunto al coinvolgimento del settore privato), sia per il mancato raggiungimento di obiettivi fiscali e di riforme da parte di Atene. Inoltre, il 20 marzo la Grecia affronterà maturazioni su suoi titoli di debito per qualcosa come 14,4 miliardi di euro e ha disperato bisogno di denaro per onorare quella scadenza, pena il default.
Mettiamo anche il caso che tutto vada nel migliore dei modi, ovvero si trovi l’accordo con i creditori privati e arrivi puntuale la quinta tranche di aiuti, l’ipotesi di un’elezione a brevissima distanza di tempo potrebbe essere presa dai mercati come l’ennesimo alibi per generare sfiducia e turbolenze, visto che nonostante il partito socialista dell’ex premier Papandreou e l’esecutivo tecnocratico di Papademos viaggino in parallelo rispetto alle necessità di portare avanti le misure di austerity, l’opposizione di Neo Democratia, quasi certamente vincitrice del prossimo appuntamento elettorale, sta facendo non poca resistenza, dicendo no a ulteriori tagli dei salari e aumenti e delle tasse e così garantendosi appoggio in strati di popolazione storicamente a lei lontana, ma oggi frustrati dalla cura lacrime e sangue imposte da Fmi e Ue.
Insomma, c’è il rischio di un cavallo di Troia politico, anche se tutto dovesse mettersi al meglio, capace di rimandare gli spread di tutti i cosiddetti Piigs in altalena da qui a novanta giorni. Tanto più che Ubs ha pubblicato un report nel quale definisce “poco probabile” l’ipotesi di un coinvolgimento volontario dei creditori privati e parla a chiare lettere del rischio di una ristrutturazione coercitiva del debito subito prima o subito dopo la scadenza obbligazionario del 20 marzo, con tanto di attivazione delle clausole di default dei cds, uno scherzetto da circa 8 miliardi di euro.
Pessimismo eccessivo? Beh, se io vi sembro pessimista cosa dite al signor Alexandre Soares dos Santos, presidente del gruppo Jeronimo Martins (grande distribuzione, il secondo gruppo del Portogallo e primo in Polonia), il quale sabato scorso, intervistato dal giornale portoghese Expresso, ha così motivato la sua decisione di spostare la holding di famiglia che controlla il gruppo in Olanda: «Io non so se il Portogallo resterà nell’euro, ma se lo lascerà, sarà per tornare all’escudo. Io ho diritto di difendere la mia proprietà»? Confermando, inoltre, che sono proprio i rischi di tenuta dell’euro a motivare la sua decisione: «Certo, i miei consulenti economici stanno lavorando su questa ipotesi dal 2008».
A Bruxelles, invece, negano l’ipotesi – ancora ieri Cip e Ciop nella conferenza stampa congiunta hanno ribadito che nessun Paese dovrà uscire dall’euro – e si gingillano con amenità autolesioniste come la Tobin Tax (Londra, Wall Street e l’Asia sentitamente ringraziano).