Cesare Pavese sosteneva che la vecchiaia inizia quando il ricordo prevale sulle aspettative del futuro. Io, più modestamente, che continuo a equiparare con i classici la vecchiaia con la saggezza, anche perché sono un po’ narciso, credo che la vecchiaia inizi allorché ci convinciamo spiritualmente che la storia passata non insegna nulla né alle generazioni presenti, né a quelle future. È un pensiero che rivolgo, istituzionalmente e deferente, al vecchio amico Corrado Passera, ora illustre ministro e, da quel che apprendo dalle sue recenti interviste, anch’egli convinto che vi sia un legame, in Italia, sottolineo in Italia, tra liberalizzazioni e crescita.
Debbo dire a suo onore che non ha cercato di incantare tutti con l’insostenibile tiritera del nesso tra privatizzazioni e crescita, perché allora ci sarebbe stato da sbellicarsi dalle risate. Oppure da piangerci su, come coraggiosamente ha fatto ieri il Financial Times che titola in prima “Capitalism in crisis”: e la privatizzazione, lo sappiamo, è l’essenza di questo nuovo e ferocissimo capitalismo che da vent’anni non fa che generare stragi tra gli innocenti, vedasi 200 e passa milioni di disoccupati nei paesi Ocse e i trilioni di dollari di asset tossici che infettano la finanza mondiale peggio dell’Aids.
Ma torniamo all’Italia. Dobbiamo finalmente dire a chiare lettere che la mancata crescita di oggi è frutto delle disgraziate privatizzazioni senza liberalizzazioni degli anni ‘90. Privatizzazioni fatte per gli amici degli amici e all’argentina, ossia per togliere dall’agone della concorrenza internazionale gran parte dell’industria italiana. Di ciò non abbiamo mai chiesto conto a nessuno; intellettualmente e politicamente intendo; anzi, su questa rapina si sono costruite fortune politiche che durano fino a oggi. Ma veniamo a noi. Il problema se liberalizzare o no non è un problema ideologico, ma un problema certo di teoria economica, ma anche di analisi empirica della situazione storica concreta.
Orbene, l’analisi economica, quella vera, non quella neoclassica, ci dice che crescita fa rima con investimento e quindi io devo liberalizzare solo se la liberalizzazione stimola l’investimento da parte di attori che accrescono il fascio di forze propulsive. Se la liberalizzazione non si situa in un contesto siffatto finisce in un flop, dove tutto rimane come prima, oppure in pure manovre di speculazione finanziaria grazie alle quali c’è il rischio che gli asset che dovrebbero essere liberalizzati sono invece distrutti. Sottolineo che parlo di asset e non di mercati, perché a seconda degli asset che liberalizzo ho forme diverse di mercato e quindi forme diverse di liberalizzazioni e di investimenti che sono necessari.
Per quanto riguarda la situazione storica concreta, l’Italia deve liberalizzare gran parte di quello che passa sotto il nome del capitalismo economico municipale, che io sulla scorta del grande esempio della scuola storica socialista di Giovanni Montemartini preferisco chiamare governo economico municipale. Allora non è scritto da nessuna parte che le imprese pubbliche municipali possedute dai Comuni debbano essere di per sé inefficienti e quelle stesse imprese possedute da privati debbano essere efficienti e quindi virtuose. Le esperienze che abbiamo fatto in Italia in questi ultimi venti anni sono state disastrose e qualunque persona di buon senso rimpiange le vecchie municipalizzate.
Certo, come ho sostenuto per anni inascoltato, potevamo limitare gli spiriti predatori della classe politica creando imprese miste, che avessero però come obiettivo non quello di far arricchire solo i privati, ma anche, e sottolineo anche, i cittadini consumatori, trasformandole appunto in imprese unite da reti che distribuissero i beni a prezzi inferiori alla media grazie a grandi centrali d’acquisto (modello RWE tedesco nel campo dell’energia) oppure trasformandole in imprese cooperative o not-for-profit (come è tipico del caso nordamericano). In Italia non s’è fatto né una cosa, né l’altra, ma si sono creati dei mostri che sono delle nuove forme di capitalismo di tipo misto che chiamerò politico plutocratico con tendenze alla cleptocratizzazione di cui a partire da Milano e da Bologna si potrebbero fare esempi preclari. Se vogliamo continuare su questa strada accomodiamoci, ma mi pare che questo non sia ciò che faccia bene a questo Paese.
Infine, per dirla tutta, non credo sia dignitoso parlare di liberalizzazioni attaccando piccoli padroncini, onesti artigiani riuniti in cooperativa che sbarcano appena il lunario come i tassisti. Farei invece l’ opposto: non privatizzerei i tassisti, ma darei incentivi alle loro cooperative perché migliorino i servizi e consentano di avere finalmente in Italia taxi londinesi, in cui sali senza slogarti la schiena, il collo o le gambe. Per quanto riguarda gli ordini, il discorso è molto complesso e richiede una riflessione profonda su cosa siano e debbano essere le professioni liberali nell’Occidente capitalista. Partirei da lì e non dalle tariffe.
Infine, per quanto riguarda l’energia, le mie posizioni sono note: gli oligopoli tecnici e in natura non possono essere liberalizzati se non, ahimè, con l’aumento dei prezzi dei prodotti che essi distribuiscono attraverso il mercato monetario. Piuttosto che liberalizzare in questi campi è ora di investire. Ma mi pare che nessuno voglia farlo in un capitalismo rent seeking come quello italiano.