«Il referendum di giugno pesa tantissimo sulle possibili liberalizzazioni dei servizi idrici, e ci sono alcuni motivi che chiariscono questa affermazione: innanzitutto dal referendum in poi, ogni volta che si discute di servizi pubblici, l’acqua è sempre un settore a parte, quindi il primo effetto che ha avuto il referendum è che la disciplina giuridica del settore idrico inevitabilmente seguirà una traiettoria diversa da quella degli altri settori. In sé questo non è negativo, perché mi rendo conto che ci sono così tante specificità in ciascun settore che non è possibile pensare a una rete unica o a una riforma dei servizi pubblici locali». Ilsussidiario.net ha chiesto un commento riguardo eventuali liberalizzazioni dei servizi idrici tra quelle promesse a giorni dal governo a Paolo Nardi, esperto di economia e gestione dei servizi pubblici. «Un altro effetto che ha avuto il referendum – spiega Nardi – è stato quello di lanciare un messaggio che va nella direzione opposta a quella delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, cioè che l’acqua è un bene pubblico. Di conseguenza non si può facilmente pensare di riproporre, ad esempio, una legge che obblighi privatizzazioni, quindi il referendum ha dato una sterzata che almeno nei prossimi anni avrà un’incidenza pesante nel settore».



Nardi ci dice che «è ancora troppo presto per conoscere le prossime mosse del governo, e le scopriremo solo quando sarà pubblicato il testo del decreto. Credo comunque che non ci saranno quegli obblighi di gara o di dismissione di quote per gli enti locali com’era nella precedente legge abrogata. Non so quindi cosa faranno Monti e i vari ministri, ma è probabile che l’in house tornerà, come attualmente è per l’esito del referendum, una delle possibili legittime forme di gestione del servizio. Di conseguenza, l’ente locale che vuole gestire direttamente il servizio attraverso una società pubblica posseduta al 100% o addirittura attraverso una gestione diretta, subirà delle conseguenze in termini di mancata possibilità di procedere, per esempio, ad acquisizioni di altre aziende in Italia oppure di impossibilità di partecipare alle gare. Il concetto base è: se il Comune decide di gestirsi l’acqua da solo non lo fa per creare una multinazionale o un’azienda che vada poi a gestire l’acqua da un’altra parte. La vera domanda che però ci dobbiamo porre, secondo me, è: qual è l’obiettivo?».



Una risposta Nardi ce l’ha: «Credo che gli obiettivi della gestione del servizio idrico debbano essere qualità, efficienza ed equità. In realtà, non è il tipo di gestione in sé che fa la differenza, perché la gestione pubblica e quella privata non sono necessariamente correlate a una gestione migliore o peggiore: ci sono casi buoni e casi meno buoni in entrambe le situazioni, e credo che quello che fa la differenza si trovi nelle circostanze di contorno. Probabilmente la via d’uscita, tenendo conto anche del dibattito e dei toni accesi che hanno preceduto e poi seguito il referendum, sarebbe piuttosto quella di una vera libertà, in cui ogni ente locale decida come vuole gestire le risorse idriche. Poi, però, al pari di questa libertà, ci deve essere anche quella di essere giudicati, e la metodologia è quella della regolazione. Una delle possibili azioni del governo può perciò essere la regolazione degli standard di qualità dei servizi e la tariffa: questo, se si pensa anche all’esempio inglese, ha dato dei risultati molto positivi, ed è molto interessante perché parliamo di un sistema che è stato privatizzato, ma che funziona molto bene grazie alla presenza di un’autorità di regolazione adeguata».



 

(Claudio Perlini)      

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