C’è una definizione, coniata in tempi recenti, che potrebbe applicarsi alla storia dell’uomo dalla torre di Babele ai giorni nostri. L’espressione è too big to fail, troppo grande perché fallisca, e si riferisce a quei colossi di industria e finanza che, giunti a un passo dalla bancarotta, debbano essere salvati pena il tracollo di intere nazioni. Agli inizi della crisi, nel 2007, gli Stati Uniti vantavano una nutrita schiera di giganti, dai costruttori di auto come General Motors ai grandi gruppi finanziari quali Citigroup, Goldman Sachs, AIG e molti altri. Che la maggior parte dei titani siano banche e assicurazioni non è un caso: nel 1999 l’Amministrazione Clinton, cancellando il Glass-Steagall Act, liberalizza il settore finanziario.
Da allora, una girandola di fusioni e acquisizioni concentra la finanza globale nelle mani di pochi, mastodontici, istituti. Citigroup, ad esempio, è il risultato di una serie di matrimoni che dalla fine degli anni ‘90 mette insieme: Citibank, Travelers Group, Salomon Brothers e Smith Barney. Alle prime avvisaglie della crisi, nel 2007, il gruppo conta su 375mila dipendenti, una capitalizzazione di 120 miliardi di dollari e un bilancio da duemila miliardi. Il 28 ottobre 2008, a diciotto mesi dall’inizio della crisi, Citigroup deve chiedere aiuti governativi per 45 miliardi di dollari ai quali si aggiunge una garanzia pubblica su 306 miliardi di attivi in sofferenza. L’aiuto rientra nel quadro del Tarp (Troubled asset relief program), uno schema a cui fanno ricorso anche Bank of America, Aig, JPMorgan, General Motors e Chrysler tra gli altri.
Il Tarp svolge due ruoli e Citigroup offre un ottimo esempio di come il programma funzioni a doppia corsia. Da una parte, il governo americano (ancora presieduto da G.W. Bush) ricapitalizza i colossi attraverso iniezione di capitali freschi, dall’altra i crediti incagliati entrano sotto tutela pubblica e, in caso di default, è il governo americano a onorare gli impegni. Come abbiamo visto nella seconda puntata, questo approccio interventista rientra perfettamente nella cosiddetta “dottrina Bernanke”. E, nonostante lo scetticismo iniziale, pagherà molto bene: nel 2010 l’Amministrazione americana venderà sul mercato la partecipazione in Citigroup con un profitto netto per i contribuenti di dodici miliardi di dollari.
Non tutte le storie hanno un lieto fine. Nel 2007 Lehman, già pesantemente esposta verso subprime e derivati finanziari, decide per una strategia ad alto rischio e investe più di un miliardo di dollari nel mattone americano. A fine anno, le esposizioni immobiliari della banca mostreranno un valore di mercato approssimabile allo zero. Cominciano settimane di negoziazioni febbrili, al termine delle quali, complice un comportamento sempre più erratico della dirigenza, Lehman Brothers è abbandonata al proprio destino. L’atteggiamento aggressivo della banca nei confronti dell’Amministrazione americana e dei potenziali acquirenti lascia un’unica opzione possibile: lunedì 15 settembre 2008, mentre Merrill Lynch è acquisita da Bank of America, Lehman Brothers porta i libri in tribunale.
Lehman Brothers doveva essere salvata? Su questa domanda si accende il dibattito tra liberisti – che vedono nel fallimento la dura ma efficiente legge dei mercati – e protezionisti, se così possono definirsi quanti invocano un intervento pubblico a mitigare gli eccessi del mercato. Per la Fed non è ancora tempo di riflessioni. Il giorno successivo al fallimento di Lehman Brothers, Moody’s e S&P’s abbassano per la seconda volta in tre giorni il rating di Aig. Stiamo parlando di uno dei più grandi gruppi al mondo, dalle cui sorti dipendono i piani previdenziali di milioni di americani.
Di fronte al rischio di un collasso finanziario globale, anche i liberisti più accaniti impallidiscono. Mercoledì 17 settembre il colosso assicurativo può già contare su 85 miliardi di dollari, concessi dalla Fed in cambio di un’opzione sull’80% delle azioni Aig. Un mese dopo, il Tesoro americano mette in sicurezza il gruppo, investendo 40 miliardi di dollari del Tarp in titoli Aig. A oggi, 20 miliardi di dollari sono stati rimborsati e nessuno degli interventi pubblici nella compagine azionaria ha registrato minusvalenze.
Esiste un modo per valutare il successo di questa strategia? Il tasso di disoccupazione è la miglior cartina tornasole: all’esplodere della crisi, nel marzo 2007, è senza occupazione il 4,4% della forza lavoro statunitense. La percentuale schizza fino a superare quota 10% a ottobre 2009 (quando i primi resoconti positivi sul Tarp sono pubblicati) e da allora scende fino a raggiungere l’attuale 8,6%. La disoccupazione Usa non è ancora sotto i livelli di guardia, ma il sistema politico-economico regge alla perdita della tripla A, limata da S&P’s ad agosto 2011, e può concentrarsi sui fattori destabilizzanti oltre i confini nazionali: due centri geopolitici altamente ambiziosi (Ue e Cina) e due monete pronte a dar battaglia. Lo yuan, artificialmente svalutato, e l’euro, politicamente sopravvalutato.
Nella prossima e ultima puntata la guerra delle tre monete arriverà alle sue fasi finali e gli effetti su valute e debito pubblico entreranno di forza nella vita di tutti noi. Yuan ed euro si aspettavano un tale attacco? Forse, ma – come scrisse il generale Sun Tzu 2500 anni prima della nascita dell’euro – gli strateghi vittoriosi trionfano ancor prima di dare battaglia.
(4 – continua)