Tutto finito? No, i lavori nel cantiere Italia sono appena cominciati. Non facciamoci distrarre dai primi successi sul fronte dei titoli di Stato che, dopo settimane ad altissima tensione, cominciano a reagire alla medicina da cavallo imposta dalla manovra del governo Monti. Finalmente i tassi rientrano dai livelli patologici che minacciavano (e continuano a minacciare) la nostra stessa esistenza come nazione autonoma e indipendente dal volere del Fondo monetario internazionale.
Nel frattempo, produce frutti la terapia della Bce: le banche, inondate di liquidità, dopo l’iniziale e prevista ritrosia, tornano a investire nel debito sovrano europeo. Purtroppo, sottolinea Mario Draghi, i tecnici sono stati presi in contropiede dalla lentezza della politica. La richiesta dell’Eba di aumentare il capitale delle banche, ha spiegato il numero uno della Bce, doveva arrivare dopo (e non prima) il rafforzamento del fondo salva-Stati. Se fosse andata così, l’aumento di capitale di Unicredit sarebbe partito in una situazione più tranquilla e ci saremmo risparmiati le tensioni di questi giorni: la reazione dei mercati di questi giorni dimostra che Bruxelles e Francoforte, sul piano tecnico, hanno i mezzi per raffreddare la pressione delle vendite sui titoli di Stato purché gli operatori si convincano che questa è l’effettiva volontà degli Stati, a partire dalla Germania.
Al contrario, l’incertezza di questi mesi si è tradotta in nuovi rovesci delle quotazioni di Btp (e Bonos), ha fatto scricchiolare gli Oat francesi e ha messo in ginocchio i bilanci delle banche. Non solo. L’aumento di capitale Unicredit ha avuto caratteristiche procicliche, ovvero si è andati a chiedere i quattrini nella situazione di più marcata debolezza si potesse immaginare. Il risultato? La banca ha dovuto chinare il capo di fronte alle richieste del consorzio di collocamento che, come è ovvio, preferisce tenere il prezzo ai livelli più bassi, mentre alcuni grandi azionisti, Fondazioni comprese, hanno approfittato dei prezzi stracciati per abbassare il valore di carico.
Insomma, le incertezze, i ritardi e i machiavellismi della politica, a Bruxelles come a Berlino e Roma, hanno contribuito in maniera rilevante a complicare la vita al sistema finanziario di casa nostra. I ritardi nel “fiscal compact” si sono riflessi su scala domestica, accentuando conseguenze negative: peggioramento dei mezzi propri e del magazzino titoli che si è riflesso sulla capacità di fornire credito all’economia mentre la crisi della finanza rendeva sempre più ostico il ricorso a prestiti di terzi. La mancata credibilità dell’Europa, in questo modo, si è riflessa su tutti i livelli della vita economica, compreso il mutuo o il prestito al piccolo artigiano che, nel frattempo, si trova a dover fare i conti con debitori morosi, a partire dagli enti pubblici.
La mancanza di credibilità delle istituzioni o dell’azione di governo, che discende da promesse da marinaio o da impegni rinviati alle calende greche, diventa così una concausa primaria dei problemi della vita di ogni giorno. Non è una novità, ma in tempi di crisi, quando l’efficienza e il rigore diventano una precondizione quantomeno per non peggiorare la situazione, rispettare gli obiettivi e garantirsi credibilità nei confronti di terzi diventa essenziale, se non sufficiente. È bene ricordarlo dopo la prima giornata davvero positiva per la finanza di casa nostra da molti mesi a questa parte.
I mercati, di fronte all’apertura di frau Angela Merkel, hanno preso atto che la Germania è scesa finalmente dall’Aventino e si accinge, nel suo interesse, a collaborare per il risanamento dei conti italiani. Mario Draghi può accingersi alla fase due, ovvero a “sparare” entro fine febbraio un altro maxi prestito ricostituente della Bce al sistema bancario nella speranza che nel frattempo decolli un’Unione fiscale “chiara e non ambigua”. In questo modo, sia ben chiaro, non si mettono le basi per la ripresa dell’economia reale o tantomeno per far affluire in maniera copiosa i quattrini alle imprese. Ma si evita quanto meno la catastrofe. Poi, si vedrà: il rilancio dell’economia reale, in Italia soprattutto, non è solo questione di mezzi finanziari, ma anche di qualità del tessuto delle imprese.
Semmai si può sperare nel propellente delle valute: l’euro si sta indebolendo, con gran beneficio per l’export. Mancano i compratori? Niente paura. È lecito attendersi che, dopo i prestiti della Bce alle banche e il rafforzamento dell’Efsf, la palla torni sull’altra riva dell’Oceano: al primo rallentamento della congiuntura Usa, atteso per la primavera, il presidente della Fed Ben Bernanke rilancerà gli stimoli all’economia, come ha lasciato intendere nel Beige Book dedicato alla congiuntura Usa uscito mercoledì.
L’uscita dal tunnel della crisi non è ancora all’orizzonte. Anzi, se si guarda all’economia reale, la parte più dolorosa comincia adesso. Ma la finanza, così come ha anticipato nel 2007 l’insorgere della crisi, forse sta anticipando che finalmente è stata imboccata la strada giusta per uscire dalla crisi. Purché non si ceda al vecchio vizio di prender scorciatoie nell’illusione di difendere vecchi vizi corporativi.
Guai ad abbassare la guardia, o pensare che il più è stato fatto. Questo vale per i tassisti o i farmacisti. Assai di più per i civil servants (magistrati in testa) che lucrano il doppio o triplo stipendio sugli arbitrati resi necessari dall’inefficienza della Pubblica amministrazione o della giustizia. Vale, soprattutto, per la grande finanza: basta con il capitalismo familistico, di cui il gruppo Ligresti è stato l’emblema, basta con i banchieri troppo generosi con i potenti, al di là dei numeri.
Insomma, liberalizziamo i taxi, ma prima ancora Piazza Affari, ancora troppo condizionata da salotti buoni o, più spesso, assai meno buoni. Solo così non avremo patito invano.