Questa settimana l’apertura del Salone dell’auto di Detroit sta riaccendendo l’interesse sulle sorti di Fiat. Sergio Marchionne, Amministratore delegato del Lingotto e di Chrysler, ha spiegato di voler puntare alla fusione tra le due case automobilistiche e inevitabilmente ci si è tornati a chiedere dove sarà la sede del gruppo: Detroit o Torino? Il manager italo-canadese ha anche dichiarato che per poter restare sul mercato la dimensione produttiva ottimale è tra gli 8 e i 10 milioni di automobili l’anno: cifre in rialzo rispetto ai 6 milioni preventivati fino a qualche tempo fa dallo stesso Marchionne e che hanno fatto supporre che Fiat stia cercando un’alleanza con Peugeot. Infine, l’ad del Lingotto deve fare anche i conti con i sindacati italiani. Cgil e Fiom sembrano essersi ricompattate contro il contratto nazionale Fiat siglato a dicembre. È poi notizia di ieri che l’organizzazione guidata da Maurizio Landini ha raccolto un numero sufficiente di firme per poter proporre un referendum abrogativo del contratto stesso. Abbiamo affrontato tutti questi temi con Stefano Cingolani, giornalista economico esperto di Fiat.
Partiamo da una considerazione: Marchionne per raggiungere il suo nuovo obiettivo ha per forza bisogno di un alleato. Rumours e smentite si stanno concentrando su Peugeot. Cosa ne pensa?
Più che un alleato, mi sembra che Fiat ne stia cercando due. Detto questo, nel momento in cui Marchionne ha visto sfumare la grande occasione di Opel nel 2009, proprio quando veniva trovato l’accordo con Chrysler, si era già capito che il suo piano era rimasto “zoppo”. È un dato di fatto che in Europa ci siano troppi produttori e occorre quindi semplificare con alleanze, fusioni e selezioni. Ci sono troppi costruttori generalisti in un mercato stagnante e che sarà tale in modo strutturale. Fiat quindi da sola nel continente non ha futuro. Già in passato il nome di Peugeot era stato accostato al Lingotto, in base ad alcuni fattori.
Quali?
Si tratta di due aziende “famigliari”: i loro azionisti di riferimento sono due storiche famiglie che hanno sempre avuto rapporti buoni. Inoltre, Fiat e Peugeot in passato avevano già collaborato sul piano produttivo nel campo dei motori e dei veicoli commerciali. Però si pose un problema, quello del controllo: se si va al “matrimonio”, chi guida la coppia? Penso che questo problema si ponga tale e quale anche oggi. Tanto più che Marchionne è uno che vuole comandare, non è un “primus inter pares”. A meno che non abbia in mente qualcosa di diverso.
Che cosa?
Mettere insieme linee produttive e piattaforme, che si potrebbero anche razionalizzare: Peugeot è infatti più forte nei modelli di segmento medio-alto, mentre Fiat in quelli medio-bassi. Questo però un concetto ormai datato, che ha almeno dieci anni: non so se può reggere oggi, di fronte a un mercato stagnante come quello europeo. Solo una fusione potrebbe veramente funzionare, ma in questo caso mi sembra che ci siano molti ostacoli. Il vero vantaggio sarebbe comunque quello di mettere insieme due aziende che già collaborano e che hanno culture industriali simili e integrabili. Non è un elemento da sottovalutare se pensiamo a come è andata a finire tra Daimler e Chrysler.
Più che in Europa, Marchionne non avrebbe bisogno di un alleato in Asia, dove il mercato è in espansione, ma il gruppo è praticamente assente?
L’Asia è il grandissimo buco nero della Fiat. L’alleanza con Tata in India è andata male, mentre il suo ingresso in Cina è stato tardivo e solo con i veicoli commerciali. Marchionne ha già tentato vari partnership in Asia, ma senza successo. Ho letto che ora vorrebbe entrare in Cina con Chrysler, ma non so se questa manovra potrà funzionare. Sono un po’ pessimista, perché in Cina i grandi produttori mondiali sono ben insediati. Basti pensare che Ford, che è arrivata in ritardo una decina di anni fa, ora ha solo il 3-4% del mercato. Quello dell’Asia comunque è il grande problema di Marchionne, non tanto per raggiungere gli 8-10 milioni di auto prodotte, ma almeno il traguardo dei 6 milioni, che resta ancora lontanissimo.
Intanto è tornato il dibattito sulla futura sede del gruppo, una volta che Marchionne avrà completato la fusione tra Fiat e Chrsyler. Ci sarà un addio all’Italia?
Mettere la sede a Detroit vorrebbe dire far restare Chrysler e far scomparire Fiat. Mi sembra sconveniente far sparire un marchio che in America Latina è ancora abbastanza forte. C’è inoltre un know how tecnologico e industriale in Italia, molto forte nell’ingegneristica e nella motoristica, che può rivelarsi utile per Chrysler. Certo, l’Italia pecca nella parte marketing, ma in quella industriale non è così debole. Nel momento in cui ci sarà la fusione, credo che sarà quindi interesse dello stesso gruppo mantenere un forte radicamento nella cultura industriale italiana. Nelle grandi industrie, del resto, le cose non si possono improvvisare, occorre avere una storia alle spalle.
In che senso?
Una cultura industriale non si può “buttare a mare”. Lo dimostra anche il caso dell’industria automobilistica americana, data tante volte per morta. Certo si è ridimensionata, ma è sempre lì. Senza dimenticare la Germania, che è il classico esempio di un Paese che ha saputo valorizzare, difendere ed espandere la propria cultura industriale. Resta in ogni caso aperta la discussione su quello che si può produrre in Italia. Per esempio, dobbiamo continuare a fare automobili di massa? Non voglio entrare nel merito della questione, ma ciò non toglie che esiste.
Per Marchionne resta poi aperta la questione sindacale. La Fiom ieri ha annunciato di aver raccolto le firme necessarie per presentare un referendum abrogativo sul contratto Fiat siglato a dicembre.
Secondo me, se ci sarà il referendum la Fiom lo perderà. Da come sono andate finora le cose negli stabilimenti non credo che i metalmeccanici della Cgil abbiano il consenso necessario a far saltare il contratto. Credo che ci sia da parte loro anche una cecità strategica: siamo in una situazione in cui i rapporti di forza sono nettamente sfavorevoli ai lavoratori dell’industria, soprattutto quella grande. Basti pensare che in Italia si sta smontando il welfare state, si sta rimettendo in discussione in modo drastico e immediato il patto sociale che era stato scritto e costruito tra gli anni ’60 e ’70. Alla Fiom sfugge poi una lezione del passato.
Quale?
Nel 1980 il centro studi della Cgil fece un’indagine molto capillare nelle fabbriche italiane ed emerse che la maggioranza dei lavoratori Fiat accettava la ristrutturazione. Stiamo parlando di un periodo in cui il potere sindacale era al massimo, mentre oggi è al minimo. Questa mossa della Fiom mi sembra quindi francamente suicida. La potrei giustificare solo come la difesa di una “bandiera”, un voler dimostrare di aver mantenuto fede alla propria posizione ideologica.
Marchionne ha ribadito di voler lasciare la guida del gruppo una volta completato il progetto di fusione nel 2015. Cosa potrà accadere dopo? Chi potrebbe prendere il suo posto?
Ma Marchionne lascerà davvero? Battute a parte, credo che se di qui al 2015 le cose con la Chrysler andranno avanti così, lui resterà nella storia del management come l’uomo che ha salvato un’azienda che sembrava morta. Credo che al suo posto verrà un americano.
Perché?
Va detto innanzitutto che Marchionne non ha mai costruito la sua successione, anzi ha “eliminato” tutti i possibili successori. È una sorta di novello Urano che uccide i suoi figli. Inoltre, una volta completata la fusione tra Fiat e Chrysler, il baricentro del gruppo sarà più spostato verso gli Usa. Per questo vedo più un americano che un italiano. Questo non è però in contraddizione con l’idea di non chiudere in Italia. Basti pensare all’esempio di Opel, un marchio con una propria identità tedesca, ma posseduto da General Motors.
Dunque è da escludere un ritorno nella gestione di Fiat della famiglia Agnelli, magari con John Elkann?
Penso che la famiglia Agnelli sia sempre più defilata. Non è lei a decidere le strategie, come ai tempi dell’Avvocato, che sovrastava i vari Romiti, Cantarella e Ghidella. Il comando ce l’ha Marchionne, gli altri sono degli “azionisti al seguito”, anziché essere il management a seguito degli azionisti.
(Lorenzo Torrisi)