Eravamo abituati a pensare che sì, la piccola impresa sarà anche virtuosa, eroica, innovativa, fantasiosa ed eccellente; ma, venendo a ciò che conta, è solo la grande che può garantire export e, soprattutto, occupazione. Tanto più a livello europeo. E invece, adesso, uno studio della Commissione Ue, assieme ai dati della Fondazione Impresa, sanciscono ciò che, in molti in realtà, già sapevano. Ovvero, che sono le Pmi a garantire la maggiore occupazione con un tasso che, tra il 2002 e il 2010 è cresciuto dell’1%, rispetto allo 0,5% di quelle più grandi, mentre hanno contribuito per l’85% alla creazione netta di posti di lavoro nell’Unione europea. Paolo Preti, direttore del master Piccole imprese della Sda Bocconi, raggiunto da ilSussidiario.net, considera le ricerche recenti una conferma di quanto già noto. «La grande impresa, negli ultimi anni, ha subito un processo di ristrutturazione a livello europeo, il che ha coinciso con l’espulsione di manodopera. Le piccole, invece, che, soprattutto in Italia, continuano a esportare hanno bisogno di assumere persone. Specialmente giovani».



Eppure, la disoccupazione giovanile italiana è tra le più alte d’Europa. «Il problema è che buona parte della popolazione giovanile, al termine degli studi universitari si dirige verso la grande impresa, mentre le piccole, che sarebbero disposte ad assumere, non sono in grado di dare a queste persone lavori coerenti con il loro percorso universitario». Due mondi che comunicano a fatica. «Spesso il sistema scolastico orienta verso la grande dimensione che è quella che oggi non assume». Fa ancora peggio l’università. «Di sicuro, la frequenza universitaria va sostenuta e incentivata, anche perché l’Italia è tra i paesi europei con il minor numero di laureati». Tuttavia, c’è un modo scorretto di intendere il proprio percorso universitario. «Certo, è possibile scegliere facoltà con un maggior contenuto professionalizzante, come ingegneria, economia o medicina. Queste scelte consentono di legare il proprio lavoro, con buone probabilità, ai propri studi. Tuttavia, si può anche optare per altri tipi di facoltà, magari quelle umanistiche. E sedi di ateneo meno prestigiose perché più vicine o comode; una scelta assolutamente legittima e sacrosanta. Ma, a quel punto, non si potrà pretendere di trovare un lavoro coerente con in propri studi». E allora, chi glielo fa fare a una persona di continuare? «Occorre farlo per investire su se stessi, non per l’occupazione futura; per intenderci: l’ideale, virtualmente, sarebbe essere un idraulico laureato; si avrebbe sempre di che vivere più che dignitosamente grazie alla padronanza di un mestiere, e si sarebbe, grazie agli studi compiuti, cittadini maggiormente completi».



Altro dato estremamente interessate, il fatto che le Pmi esportino più delle grandi imprese e che in dieci nicchie merceologiche abbiano superato la crisi. Ma il problema non era, per l’appunto, la ridotta dimensione e non bisogna far sì, quindi, che si aggregassero? «I distretti italiani hanno aumentato nel 2010 e nel 2011 le proprie esportazioni, mentre il 97% delle imprese italiane ha meno di 20 dipendenti. Il che esclude che la dimensione dell’impresa italiana sia inadeguata per stare sul mercato». 

Eppure, sembrava l’origine di tutti i mali. «È un luogo comune, molto in auge nel mondo accademico, dove si è portati a pensare che sotto una certa dimensione non possa esserci che pressapochismo e assenza di professionalità. Certo, con imprese un po’ più grandi si potrebbe fare ancora meglio. Ma se per diventare grandi si è costretti a perdere l’imprenditorialità e la capacità di iniziativa personale, è meglio restare piccoli. Anche perché le reti d’impresa, ad esempio, sono estremamente utili, ma non risolvono i problemi atavici del sistema Paese». È a questo livello, quindi, che occorre un ammodernamento. «I problemi, delle imprese nascono fuori dai loro cancelli, in termini di burocrazia, legislazione sfavorevole, assenza di infrastrutture e un euro forte che rallenta l’esportazione».