Quando si pensa, ormai, di aver raggiunto il fondo, si può sempre iniziare a scavare. Non siamo ancora fuori dalla crisi, e neppure dobbiamo sognarci di uscirne in tempi rapidi. Il governatore della Bce, Mario Draghi, parlando di fronte al Parlamento europeo ieri ha disegnato uno scenario a tinte fosche. Ha detto che il momento è molto grave e, rispetto a pochi mesi fa, quando a ottobre si era insediato avvicendandosi con Jean-Claude Trichet, il quadro è peggiorato. Lo ha testimoniato, tra le altre cose, il declassamento inflitto da Standard & Poor’s a nove Stati europei, tra cui Francia e Italia. Anche se, in realtà, Draghi ha invitato a smetterla di dipendere dalle agenzie di rating. Sul tema abbiamo intervista Guido Gentili, editorialista de Il Sole 24 Ore.
Cosa pensa delle parole di Draghi?
Personalmente ho sempre pensato che la situazione fosse gravissima. Anche in seguito all’ultimo incontro a Berlino, tra Monti e la Merkel, quando (nonostante gli apprezzamenti della cancelliera tedesca), lo spread italiano non scese, scrissi che eravamo ben lungi dall’uscita dalla crisi. Già allora, del resto, Fitch indicava un possibile declassamento.
Si pensava di aver, ormai, raggiunto il fondo.
Il fondo non è ancora stato raggiunto. Basti pensare alla Grecia. Se ne parla dal 2010 ed è ancora una questione irrisolta.
Il fondo salva-Stati potrebbe rivelarsi determinante?
Quello attuale ammonta a 440 miliardi. Una somma che corrisponde, più o meno, all’approvvigionamento sui mercati previsto per l’Italia nel corso del 2012. A oggi, quindi, potrebbe servire, al massimo, a garantire la solvibilità del debito sovrano del nostro Paese. Ma immaginiamo cosa potrebbe accadere se ne facessero richiesta anche Paesi come Spagna, Irlanda o Portogallo. Da mesi, quindi, si parla di aumentarlo fino a mille miliardi. A oggi, tuttavia, non è stato fatto ancora nulla.
Perché?
Per l’ostruzionismo della Germania, che si è sempre dichiarata contraria all’aumento. Salvo, di recente, quando in un incontro con Monti, la Merkel ha manifestato la disponibilità a prendere in considerazione l’ipotesi. A patto che tutti facciano la loro parte. Siamo, tuttavia, ancora a semplici dichiarazioni d’intenti.
Sembra che le motivazioni politiche continuino a prevalere su quelle economiche e di sopravvivenza degli Stati.
È così. Del resto, in Francia si vota tra tre mesi. Negli Stati Uniti si vota a novembre, e l’Europa è diventata materia di dibattito. In Germania, infine, si vota nel 2013 e tutti i sondaggi suggeriscono alla Merkel che se si mostra intransigente nei confronti degli Stati europei, la sua popolarità sale, mentre se viene incontro ai paesi più deboli, scende. Inoltre, in tutti i Länder in cui si è votato di recente ha perso.
Draghi ha detto che non bisogna dipendere dalla agenzie di rating. Perché, allora, l’Europa, non ne costituisce una propria?
Dopo lo scoppio della grande crisi dei subprime, e quando essa si trasferì all’Europa, nel periodo compreso tra il 2008 e il 2009, ci fu un acceso dibattito in tal senso, mentre la Merkel e Sarkozy promisero che, quanto prima, l’Ue avrebbe avuto la propria agenzia. Non se ne fece e non se ne sta facendo nulla. Perché, anche in questo caso, l’Europa non riesce a decidere.
Semplicemente non riesce a decidere, o sono tanti e tali gli interessi in ballo che non riesce a muoversi?
È evidente che ci siano sotto battaglie di interessi feroci. Del resto, in un’Europa con 17 velocità differenti, se consideriamo l’eurozona, o 27 se guardiamo all’Ue, ci sono differenze produttive, occupazionali e sociali talmente elevate da rendere, spesso, gli interessi nazionali inconciliabili tra di loro. Inoltre, nel board delle agenzie di rating, in effetti, ci sono fior di azionisti privati e fondi di investimento americani.
Ci spieghi meglio
Non possiamo prescindere dai grandi fondi. Basti pensare che circa metà del debito italiano è in mano estera, quindi ai fondi di investimento. Inoltre, uno dei motivi che stanno allarmando la situazione in generale, è la ritirata dei fondi americani e inglesi dall’Europa. I mercati sono prevalentemente costituiti da queste istituzioni finanziarie. Ed è per questo che, prevalentemente, parlano inglese o americano.