Vengono da lontano, sbarcano in Italia, arraffando tutto il possibile, per poi dirigersi verso la prossima preda. In fondo, potrebbero essere dipinti come i nuovi pirati. Anche se vestono firmato, parlano le lingue e, quando se ne vanno, tocca pure ringraziarli. In molti staranno interpretando in questi termini l’annuncio di Aabar, il fondo sovrano di Abu Dhabi, di salire nel capitale di Unicredit, candidandosi a diventarne il primo azionista “singolo”, e rafforzando la propria quota che passerebbe al 6,5% dall’attuale 4,99%. «Di per sé, non rappresenta certo un problema, anzi. Tutto dipende dal genere di obiettivi che il fondo si pone» spiega, interpellato da ilSussidiario.net Rocco Corigliano, professore di Economia degli intermediari finanziari presso l’Università di Bologna. Secondo il quale, per Unicredit, si tratta di una notizia estremamente positiva. «Se ha riscosso l’interesse di un fondo sovrano significa che, evidentemente, è giudicata una banca con prospettive di reddito e profittabilità. C’è da aggiungere che quando un fondo sovrano investe lo fa con obiettivi di medio-lungo periodo, tali per cui è chiaro che ritenga il piano industriale di Unicredit serio».
Secondo il professore, quindi, l’obiettivo di fondo «non è quello di gestire la banca modificandone le linee d’azione, ma squisitamente finanziario. È molto probabile che lascerebbero all’attuale management la realizzazione del piano industriale». Risulta difficile pensare che il maggior azionista di un’impresa non intenda modificarne gli assetti del board. «Sarebbe il maggior azionista, è vero – replica Corigliano -. Ma lo sarebbe con soltanto poco più del 6%. Una maggioranza relativa, all’interno di un azionariato molto diluito dove, di conseguenza, i vertici si stabiliscono attraverso un patto di sindacato e non sono necessariamente espressione dei principali azionisti».
Per Corigliano, l’iniziativa è quanto mai benefica se letta alla luce della possibilità di aumentare ulteriormente il capitale. «La necessità di seguire l’indicazione dell’Eba si è verificata nel momento peggiore in assoluto. Una banca, infatti, deve poter scegliere il momento in cui effettuare l’aumento. Che, invece, è stato imposto dall’esterno e, per giunta, in momento di crisi estrema del debito sovrano; tale crisi peggiora la sua situazione patrimoniale, dato che il valore dei titoli di Stato viene computato ai valori di mercato anche se rimarranno nel portafoglio della banca sino alla sua scadenza». Secondo il professore, «il rafforzamento patrimoniale conferisce a Unicredit nuova liquidità che gli consentirà di erogare credito tagliando, magari, i tassi (anche se il taglio dipende da una serie di fattori, tra cui lo spread)».
In teoria, anche i 116 miliardi erogati dalla Bce alle banche italiane sarebbero dovuti servire per tagliare i tassi di interesse del denaro prestato. «A tal proposito, c’è un grave indicatore: la grande quantità di depositi che si stanno raccogliendo presso la Bce. Essa quindi immette liquidità nel sistema, che invece che essere utilizzata viene ridepositata. Un assurdo derivante dalla situazione in cui si trova a operare oggi il sistema bancario, non solo italiano, dominata dalla sfiducia. Il che non consente al mercato interbancario di svolgere la propria attività in condizioni normali». E Unicredit? «Dopo il rafforzamento, credo che nel suo piano industriale rientri l’intenzione di usare la liquidità di cui disporrà per finanziare l’economia».