All’alba del 14 dicembre 2010 sulle sponde dell’Atlantico comincia il fuoco di artiglieria. A sparare non sono divisioni armate, ma le ben più temute agenzie di rating. S&P’s annuncia un outlook negativo sul merito creditizio del Belgio. Il giorno successivo lo stesso trattamento è riservato alla Spagna e poi il 16 alla Grecia. Il 17 il rating della Repubblica d’Irlanda è abbassato di cinque punti in un colpo solo e tre giorni dopo la scure cade su trenta banche e due governi regionali spagnoli. A ridosso di Natale, il debito greco rischia di scivolare sulla tripla C (ci arriverà pochi mesi dopo) e il Portogallo vede il proprio rating abbassato di due livelli. La guerra delle tre monete è iniziata.



Liberiamo il campo dagli equivoci. I downgrade del merito creditizio sono sempre esistiti (così come i legami tra politica, lobbies e finanza) e non serve la sfera di cristallo per trovare la prima di alcune coincidenze curiose: i principali azionisti delle agenzie di rating sono gli stessi nomi che figurano alla testa del sistema finanziario americano. Si tratta di State Street, Fidelity, Vanguard, Blackrock (di nuovo loro) e Capital World Investor. Quest’ultimo sarebbe il più grande fondo al mondo per gestione patrimoniale, ma il condizionale è obbligatorio: il gruppo rifiuta categoricamente di pubblicare qualsiasi dato lo riguardi (non male per il primo azionista di un’agenzia, S&P’s, che predica trasparenza a colpi di rating). Anche la tempistica e i bersagli di questa raffica di annunci meritano una lettura attenta.



Due dati, innanzitutto. La tripla A degli Stati Uniti è rimasta intatta dal 1991 fino a pochi mesi fa, quando la situazione delle finanze pubbliche americane non poteva più giustificare un rating ai massimi livelli (era l’epoca in cui sulla questione dei tagli al deficit tra Repubblicani e Democratici volavano stracci). In quel caso, le agenzie di rating si mossero con i guanti di velluto: il downgrade arrivò in un anonimo venerdì di agosto, a borse chiuse, e nell’annuncio le agenzie mostrarono un’insolita cautela. Un altro Paese che ha molto a cuore le sorti della finanza, la Gran Bretagna, è scampato al rigore delle agenzie in più di un’occasione e oggi mantiene intatta quella tripla A che gli fu assegnata nel lontano 1978.



I colpi sull’eurozona continuano per tutto il 2011, con una curiosa tendenza a concentrarsi a ridosso dei meeting europei: in prossimità del summit di marzo 2011 (all’ordine del giorno c’è il dibattito sull’unione fiscale), arrivano tagli per Cipro, Grecia, Spagna e Portogallo. A ridosso del summit di luglio (questa volta si discute dell’emergenza ellenica), le agenzie decidono per un giro di vite su Portogallo, Grecia e Irlanda.

Il fronte europeo resiste compatto per pochi mesi soltanto. A fine luglio Deutsche Bank vende titoli di Stato italiani per 7 miliardi di euro. Commerzbank, Société Générale, Hsbc e Bnp Paribas seguono a ruota, riducendo nel terzo trimestre 2011 l’esposizione sul Bel Paese per un importo che si aggira intorno ai 15 miliardi di euro. L’effetto domino è ormai avviato e le conseguenze politiche non tarderanno ad arrivare. Ma nella girandola di annunci, un avvenimento merita di essere approfondito.

A settembre 2011 si vocifera di un potenziale intervento cinese a supporto di Bot e Btp. L’operazione rientrerebbe nel quadro di una più ampia strategia di investimenti che il Dragone dovrebbe intraprendere nel Vecchio Continente. Ma Pechino ha ben altri problemi a cui pensare. La campagna per investire le enormi riserve monetarie non è tutta rose e fiori. Nella prima puntata abbiamo trattato degli interessi cinesi in Africa e, tra essi, dei miliardi di dollari investiti in energia e infrastrutture. Nel caso delle ferrovie nigeriane, un progetto di ingegneria civile per circa 7 miliardi di dollari, le perdite sull’investimento ammontano al 90% del valore iniziale (dati Bloomberg) e sono dovute a una diminuzione dei proventi petroliferi con i quali il governo nigeriano contava di pagare i lavori. Più in generale, secondo dati Heritage Foundation, a oggi 70 progetti cinesi da almeno 100 milioni di dollari hanno subito perdite parziali o totali, per un corrispettivo totale di circa 165 miliardi di dollari.

Il governo statunitense non è solo spettatore della debacle. Washington, infatti, blocca diverse operazioni sul suolo americano (pari a 20 miliardi di dollari), ponendo il veto politico su una serie di obiettivi ritenuti di interesse strategico nazionale (alta tecnologia, energia e porti). Pechino reagisce minacciando di sbarazzarsi dei titoli americani e, quando gli Usa perdono la tripla A, intima al debitore un taglio al deficit, spese militari in primis (agenzia Xinhua, agosto 2011). Gli Stati Uniti rispondono con l’annuncio di una maggior presenza militare nel Pacifico e a novembre cominciano le manovre in collaborazione con la marina australiana.

Negli stessi mesi del 2011 scoppia il caso Sino-Forest, un sedicente colosso cinese del legname sui cui conti analisti, revisori e organi di vigilanza avanzano più di un sospetto. La società è quotata a Toronto e nel corso dell’estate il titolo perde l’80% in poche sedute. A rimetterci è, tra gli altri, il già citato Paulson Investment che vende la propria quota in Sino-Forest con una perdita netta di 720 milioni di dollari (Bloomberg).

Il caso in sé non è eclatante, ma porta una volta di più i riflettori dei media sulle molte contraddizioni del sistema economico cinese. Nelle settimane che seguono molti report si soffermano su una serie di problemi sempre più pressanti: l’inflazione incalzante, l’export in discesa, i danni ambientali, la bolla immobiliare, le crescenti rivolte nelle campagne e i primi scioperi nelle fabbriche. E sempre nel 2011 Reuters annuncia un buco di 500 miliardi di dollari nei conti degli enti locali cinesi, a cui si aggiungono forti timori sulla tenuta del sistema bancario. A fine 2011 arriva l’annuncio. Sebbene gli organi di regime parlino di un rallentamento nella crescita, così da renderla più sostenibile, la Cina e il suo modello di sviluppo sono in crisi.

Sul fronte europeo, questo resoconto si avvicina ormai all’attualità. A novembre 2011, dopo il passo indietro del candidato Bundesbank Axel Weber e le dimissioni dell’economista tedesco Jurgen Stark, Mario Draghi sostituisce Jean-Claude Trichet alla presidenza della Bce. Il banchiere uscente, guardiano del rigore secondo la linea franco-tedesca, lascia in una condizione che non può definirsi di piena serenità (si veda la conferenza stampa dell’8 settembre 2011) e passa l’incarico a un uomo sicuramente più incline al riallineamento con la Fed. L’8 dicembre la Bce inaugura una linea più interventista e annuncia operazioni per aumentare la liquidità delle banche europee, mentre l’euro continua a svalutarsi nei confronti del dollaro e a fine 2011 scende sotto quota 1,30 contro il biglietto verde.

L’esito dello scontro non è ancora deciso, ma gli Stati Uniti marcano una vittoria importante: il debito americano appare oggi sostenibile grazie a un primato politico e non per dipendenza dal credito cinese. Per quanto riguarda l’Europa, l’Unione continua sulle barricate del rigore, seguendo un modello a trazione tedesca che è ormai palesemente indifendibile.

 

(5 – fine)