La vulgata economica e politica che si ripropone nel 2012 è la seguente: se l’Italia non fa i compiti a casa, ovvero non taglia la spesa, non aumenta le tasse e non liberalizza i mercati, rischia di mandare in frantumi la costruzione europea. Alla base della vulgata, ammannita dalle istituzioni europee, accettata dall’Italia e propagandata dalla grande stampa, c’è un dogma: per contrastare la crisi dei debiti sovrani in Europa occorre che gli stati in disavanzo portino in pareggio i conti pubblici dimostrando così che non genereranno altro debito pubblico. Peccato che nel frattempo a forza di tagli alle spese e di aumenti di tasse il Pil s’afflosci ulteriormente. Così per raggiungere l’obiettivo del pareggio dei bilanci statali bisogna ridurre altra spesa o racimolare altre entrate. Chiamasi circolo vizioso.



I teorici della vulgata hanno la soluzione pronta: per far crescere il Pil serve liberalizzare i mercati. Bene. Cosa buona e giusta. Peccato che poi a mezza bocca si dica che sì, effettivamente, le liberalizzazioni non hanno effetti positivi immediati in termini di Pil, servono molti mesi, forse anni. Senza considerare che se di vere liberalizzazioni si trattasse, la maggiori opportunità a chi resta fuori dai mercati a causa di barriere spesso desuete provocherebbero anche in una prima fase diminuzioni di reddito, risparmio e consumi a chi è dentro quel recinto finora protetto.



La vulgata non valuta un’impostazione diversa. La crisi del debito sovrano è europea: i fondi americani e asiatici si ritirano dall’Europa, non solo dall’Italia, perché non è un’area attrattiva economicamente rispetto ad altre aree, e sono scettici sulla sostenibilità di molti debiti pubblici. Non solo i titoli statali italiani sono meno appetiti, ma anche quelli spagnoli, talvolta pure quelli francesi e prima o poi, chissà, pure i portentosi Bund tedeschi.

Se si abbandona la vulgata dominante, e si considera che la crisi è europea, la risoluzione non può che essere europea. E siccome nell’Unione europea il Paese che detta legge, pardon il Paese guida, è la Germania, la crisi si risolverà più velocemente quando saranno abbandonate strategie e politiche teutoniche su finanza pubblica, politica economica e istituzioni.



Partiamo dalla finanza pubblica. Il pareggio di bilancio voluto dalla Germania può anche essere assurto a totem, ma in questi giorni si dovrebbe parlare soprattutto d’altro. Si dovrebbe parlare del debito pubblico. Una ricostruzione inappuntabile di Marco Valerio Lo Prete su Il Foglio della scorsa settimana ha dimostrato che la regola capestro secondo la quale gli Stati che hanno un rapporto debito-Pil superiore al 60% devono ridurlo di un ventesimo all’anno è già in vigore. Sì, proprio così: è già in vigore da quest’anno. Questo significa che l’Italia deve apprestarsi dal 2012 ad approntare manovre per tagliare il debito di circa 50 miliardi di euro l’anno (sì, cinquanta, proprio cinquanta).

Sentite i nostri governanti che affrontano il tema? Preferiscono sciacquarsi la bocca con le liberalizzazioni (e se aprissimo anche il mercato dei consiglieri di Stato?). Qualcuno dal governo nota che l’accordo dei capi di Stato e di governo del 9 dicembre scorso – il cosiddetto fiscal compact – menziona la regola capestro sul debito, ma non indica la tempistica per l’entrata in vigore. Come dire: campa cavallo… Illudendosi così di poter rinviare il problema quando invece quella regola è già in vigore, salvo proroghe. Perché il premier Monti non parla di questo?

Il combinato disposto di pareggio del bilancio e regola capestro sul debito statale costringerà, non solo l’Italia, a ulteriori manovre correttive dal sicuro effetto recessivo, come attestato anche dalla Banca d’Italia. Dunque: la recessione e la crisi del debito sovrano sono curate con ricette che aggravano la recessione. La via d’uscita più repentina, in una prima fase, è sostenere la domanda, sia privata che pubblica. Ma per far questo la Germania deve da un lato espandere i propri consumi e dall’altro consentire un minimo di leva che può arrivare dalla domanda pubblica, come sollecitano economisti non proprio ultrakeynesiani come Gustavo Piga.

Infine, ci sono le questioni istituzionali. Spetta anche in questo caso alla Germania invertire la rotta. Favorendo con più risorse e maggiore tempestività l’attivazione del fondo salva-stati e non ostacolando un’evoluzione della Bce verso un’azione più pragmatica: se sono stati lodati (anche se i risultati positivi non sono ancora evidenti, e forse è normale che sia così) i prestiti erogati dalla Bce alle banche a tre anni a un tasso dell’1%, perché pensare che siano illegittimi gli acquisti di titoli di stato per evitare che i rendimenti superino determinate soglie?

Non a caso il responsabile del report Scenario 2012 di Intesa Sanpaolo, l’economista Luca Mezzomo, ha scritto che “la Bce continuerà a garantire condizioni di liquidità eccezionalmente accomodanti alle banche e a comprare titoli per volumi considerevoli; tuttavia, rinuncerà ai benefici che offrirebbe, in termini di miglioramento del clima di fiducia, l’annuncio formale di un programma di medio termine con obiettivi determinati”.

 

Twitter@Michele_Arnese

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