“Bisogna essere più ottimisti rispetto a sei o sette mesi fa” sostiene Mario Draghi davanti ai banchieri centrali a congresso in quel di Abu Dhabi, terra di petrolieri e di sceicchi banchieri, visto lo shopping in Unicredit. Eppure il presidente della Bce, non più tardi di una setimana fa, aveva sferzato i deputati dell’Europarlamento sillabando, nell’emiciclo di Straburgo, che “la situazione è gravissima, in netto peggioramento”. A quale versione credere?



L’Italia vista dal Fondo monetario internazionale va verso una recessione profonda, soprattutto il 2012 sarà peggio del previsto: il Pil italiano è visto in calo del 2,2% nel 2012 e dello 0,6% nel 2013. “La ripresa globale è minacciata dalle crescenti tensioni nell’area dell’euro” prevede l’Economic Outlook dell’istituzione di Washington che si accinge a raccogliere mille miliardi per sostenere i paesi in difficoltà nei prossimi anni (ogni riferimento all’Italia è puramente intenzionale). Ma le Borse, a giudicare dai numeri, hanno già archiviato il peggio. Rispetto alla metà di settembre, quando l’allarme cominciava a risuonare in tutti i desk della finanza globale e nelle cancellerie del G20, lo Standard & Poor’s 500 segna un rialzo del 26% a Wall Street, l’indice Dax cresce a Francoforte del 19%, la derelitta Milano, che ne ha viste di tutti i colori, è sopra del 13%.



Eppure da allora si sono moltiplicate le notizie negative. A settembre ci si stracciava le vesti di fronte alla prospettiva di un taglio “volontario” del 30% dei crediti dei privati verso la Grecia. Ora si viaggia sul 50% o anche più. Il governo in carica a Palazzo Chigi negava nei suoi documenti ufficiali la prospettiva della recessione, oggi già in corso. A Madrid il governo uscente prevedeva un deficit del 6%. In realtà è due punti di più. Si dava per scontato, infine, che il rafforzamento del Fondo salva-Stati era questione di giorni. Al contrario, l’odissea dei quattrini che non ci sono è tutt’altro che finita. In cambio, l’Eba chiede alle banche di casa nostra quattrini veri, da vesare entro giugno.



Insomma, non si può dire che il quadro macroeconomico abbia offerto ai mercati azionari un appiglio per vedere rosa. Ma chi non si è fatto prender dal panico a settembre scopre oggi che ha fatto bene a non dar retta ai catastrofisti che gli consigliavano di tener tutti i risparmi sotto il materasso. Ma adesso? È da condividere l’ottimismo della volontà del Draghi di Abu Dhabi? O è più saggio il “pessimismo della ragione” sfoggiato a Strasburgo? Diciamo che, in entrambi i casi, Draghi ha fatto sfoggio di pensiero ipotetico.

Diversi Stati europei, a partire dall’Italia, hanno imboccato la strada giusta con grande decisione. Anche i più scettici, a partire dalle agenzie di rating, cominciano a sospettare che Roma abbia i mezzi e la determinazione necessaria per far fronte al rinnovo dei suoi titoli per tutto il 2012. Le banche, intanto, hanno fatto provvista di liquidità presso la Bce: 50 miliardi di euro all’1% che serviranno da cuscinetto per i rinnovi delle obbligazioni nel 2012. Da questo punto di vista, l’ottimismo è giustificato. Ma sarebbe del tutto prematuro abbassare la guardia.

L’Europa resta a un passo dal baratro, situazione a cui si è giunti con rara miopia politica e finanziaria. Nel 2009, per spegnere l’incendio greco ai suoi inizi, sarebbero bastati 100 miliardi di euro. Con una cifra del genere si poteva riportare il debito di Atene al 100% del Pil con il risultato di convincere anche il più incallito degli speculatori che l’Ue era in grado di far quadrato a difesa dell’euro. Una volta garantita la pace valutaria, ci sarebbe stato modo per punire Atene dei suoi gravi peccati finanziari. Al contrario, è passata la linea di non consentire il “moral hazard”, ovvero non anticipare un solo euro alla cicala greca, dimenticando il precedente di Lehman Brothers: a mano a mano che si è fatta strada la convinzione che l’Europa avrebbe consentito il default di titoli emessi in euro da Atene, è cresciuto lo scetticismo verso tutta l’eurozona, a partire dall’Italia.

Un errore? Non proprio. Due anni di vertici inconcludenti e di tempeste finanziarie hanno consentito alla Germania di imporre la sua lex all’intera eurozona. Il che non è affatto un male, visto che la disciplina di bilancio è una virtù a tutte le latitudini. Ma oggi si è al bivio: o Berlino legittima la sua leadership politica lanciando un chiaro segnale ai mercati, oppure il castello di carte rischia di franare. Non è questione di cifre bensì di determinazione politica. Nel momento in cui la speculazione prenderà atto che l’Ue è pronta a mettere in campo risorse “illimitate” a difesa dei Btp o dei Bonos, gli attacchi cesseranno di colpo. Altrimenti continuerà un balletto suicida.

È in questa cornice che si capisce perché l’Italia non può accettare oggi un prestito da parte del Fmi. Se si scegliesse questa strada, infatti, la speculazione prenderebbe atto che l’Italia è sola o che, in ogni caso, i partner europei non si assumono la responsabilità di fronte ai propri cittadini di affrontare una politica europea, preferendo agire di conserva con asiatici, brasiliani o americani. A quel punto, si moltiplicherebbero gli attacchi all’euro, moneta senza anima comune. Con un focus particolare sull’Italia, che non ha le armi per difendersi da sola.

Per questo i prossimi venti giorni, scanditi da appuntamenti europei, dalla riunione del Fondo e dal G20 saranno decisivi per capire se è il caso di nutrire l’ottimismo della volontà. Ovvero se frau Merkel capirà che i generali fortunati hanno la saggezza di fermarsi in tempo.

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