Il governo ha varato il decreto legge per la concorrenza e le liberalizzazioni, in un’ottica di apertura dei mercati. È certamente una grande novità e un passo importante per sostenere il cambiamento che il Paese deve fare per affrontare e uscire da questo periodo di grave crisi. Il provvedimento, però, tocca molte categorie diverse tra di loro e, proprio su questa diversità, è necessaria una riflessione per comprendere ciò che è utile e ciò che può, viceversa, risultare dannoso nel tempo.



Ci occupiamo in questo articolo della liberalizzazione della professione forense e, prima di affrontare le novità introdotte dal Consiglio dei Ministri, è necessario delineare sinteticamente le caratteristiche e il ruolo degli avvocati.

L’avvocato, come noto, è parte necessaria dei processi (nel processo penale, ad esempio, è d’obbligo il difensore d’ufficio per l’imputato che sia sprovvisto di quello di fiducia), ossia il cittadino non può difendersi da sé: le ragioni di questo principio stanno nel fatto che essendo la legislazione vasta e complessa e i meccanismi processuali conosciuti solo dagli operatori della giustizia (magistrati, avvocati e cancellieri, ecc.), il cittadino autonomamente non è in grado di esercitare la propria difesa.



Ne consegue che la persona o l’impresa, che avvia o subisce un processo, inevitabilmente si affida all’avvocato, il quale diventa tutore di suoi interessi primari quali la libertà, il lavoro, gli interessi economici, le problematiche familiari, il rapporto con la Pubblica Amministrazione, ecc.: il professionista, quindi, tutela interessi rilevantissimi e costituzionalmente garantiti del cittadino, il quale difficilmente è in grado di capire se l’avvocato a cui si è affidato stia curando in modo serio e competente questi suoi interessi, se effettivamente il servizio che gli sta rendendo sia utile e non dannoso.



Per questa ragione la professione forense è una professione “protetta”: attraverso il titolo qualificante (l’esame di Stato), la formazione e l’aggiornamento (resi obbligatori con il sistema dei crediti formativi annuali), l’iscrizione all’albo e il controllo disciplinare (esercitato dai Consigli degli Ordini). Questa protezione, nell’esclusivo interesse del cittadino utente, negli ultimi anni si è molto affievolita: la mancanza del numero chiuso alle facoltà di giurisprudenza (spesso rifugio di chi non passa le selezioni di altre facoltà) porta annualmente migliaia di laureati in legge allo svolgimento della pratica forense e all’esame di Stato che, essendo poco selettivo, ha permesso che la categoria oggi conti circa 240.000 avvocati in Italia; questo numero esorbitante impedisce, in concreto, un controllo reale sia sulla formazione dei professionisti, sia sui loro comportamenti (per fare un esempio: il Consiglio dell’Ordine di Milano, composto da 15 consiglieri, dovrebbe garantire il controllo formativo e deontologico di quasi 20.000 avvocati, il che realisticamente è impossibile).

Per questo parlare di liberalizzazione per la categoria degli avvocati, dove vige già – di fatto – una situazione da libero mercato e un’esasperata concorrenza, con una progressiva dequalificazione della professione forense (in Italia il numero degli avvocati è circa sei volte quello dei francesi, cinque quello dei tedeschi e un quarto di tutti quelli d’Europa), è puro slogan ideologico o mera propaganda politica: al contrario, ciò di cui c’è veramente bisogno è tornare ad una forma più efficace di protezione di questa delicata professione, a tutela dei cittadini e dei giovani che intraprendono la strada dell’avvocatura (per i quali, paradossalmente, nell’attuale situazione fuori controllo, si profila un futuro molto incerto e difficile).

Una riforma della legge professionale (che risale agli anni Trenta), approvata da tempo in Senato e in attesa di esame alla Camera (elaborata con il consenso di tutte la principali istituzioni e associazioni di categoria), prevede un accesso più selezionato, un allargamento dei membri dei Consigli degli Ordini più numerosi, una diversa e più efficace forma dei controlli disciplinari e altro e, pur essendo criticabile sotto alcuni profili, va certamente nel senso di una maggior tutela per i cittadini che devono avvalersi del servizio dell’avvocato.

Le poche, ma rilevanti novità introdotte dal Governo per la professione forense, viceversa, rischiano di accentuare gli aspetti dequalificanti della stessa.
Sono state abolite le tariffe forensi: esse erano una garanzia per il cittadino, un punto di riferimento (peraltro, non aggiornate da tanti anni, erano più penalizzanti per gli avvocati, che non per gli utenti); la corsa al ribasso, cui tende il provvedimento, porterà probabilmente all’offerta di un servizio più scadente (si pensi, ad esempio, che i costi principali per uno studio legale sono quelli di organizzazione dello studio, della segreteria e dei collaboratori che permettono al titolare un costante aggiornamento, lo studio dei fascicoli e le ricerche giurisprudenziali, la predisposizione accurata degli atti, la preparazione con il cliente delle udienze e la presenza alle stesse, la possibilità di seguire tempestivamente tutti i passaggi del fascicolo processuale attraverso le cancellerie, il rispetto dei termini, ecc.).

Inoltre, chi si avvantaggerà della mancanza delle tariffe, saranno principalmente le grandi imprese, assicurazioni e banche che, in forza del loro potere come committenti, imporranno agli avvocati tariffe bassissime, nella linea di un profitto immediato, ma nella miopia di non rendersi conto delle conseguenze negative, nel tempo, dell’usufruire di un’assistenza di livello sempre più basso.

Si è posto, infine e ovviamente, il problema della liquidazione delle spese legali da parte dei magistrati (ad esempio, in caso di lite tra cliente e professionista) e si sono previste tariffe di riferimento presso il Ministero competente (a riprova della necessità di un punto di riferimento tariffario).

Si è introdotta la forma scritta obbligatoria di un preventivo dei costi: un accordo preventivo normalmente già interviene tra cliente e avvocato, la forma scritta sarà più vincolante, ma dovrà anch’essa necessariamente scontare l’imprevedibilità dei servizi che l’avvocato potrà rendere lungo tutto lo svolgimento di un processo, i cui tempi e attività, spesso, non dipendono da lui (si dovrà dunque formare una sorta di tariffa per ogni singola attività o proporre un compenso orario).

Infine è previsto che il tirocinio, per accedere all’esame di Stato, sia di diciotto mesi e non più di due anni, di cui sei mesi potranno essere svolti nell’ultimo anno del percorso universitario: ridurre il tirocinio (che, considerando i sei mesi fatti in Università, si ridurrebbe a un solo anno) può essere utile per favorire i giovani che si avvicinano alla professione, ma solo in un’ottica più selettiva dell’esame di Stato; altrimenti si andrà ad aumentare ulteriormente l’aspetto più problematico della professione, ossia l’esorbitanza del numero di iscritti all’Albo degli Avvocati. Non si sottovaluti, infine, che la pratica legale presso uno studio, per essere efficace, è incompatibile con un impegno di studio massiccio come richiede l’ultimo anno del corso universitario (il rischio, quindi, è di non far bene né la pratica, né l’ultima parte degli studi).

Merita una riflessione conclusiva, la possibilità, introdotta dal Governo Berlusconi, che diventerà operativa a Maggio di quest’anno, per cui le società di capitale potranno entrare come soci di maggioranza (ovviamente soci non iscritti agli Ordini) negli studi professionali: questa apertura è molto pericolosa, perché porrà i professionisti in posizione di subordine nei confronti di soci maggioritari, i cui criteri di indirizzo  dello studio risponderanno a logiche economiche, creando conflitti di interesse e minando alla radice l’autonomia e l’indipendenza dell’avvocato.

Non vi è chi non veda come quest’ultima novità, unitamente a quelle introdotte dal decreto dell’attuale Governo e alle altre varie ipotesi di liberalizzazione di cui si parla in questo periodo (abolizione degli Ordini, del titolo di abilitazione alla professione, ecc.), vadano unilateralmente nel senso dello snaturamento della funzione e del ruolo dell’avvocato, a detrimento del suo necessario apporto al buon andamento della Giustizia e del servizio che essa deve rendere alla cittadinanza.

Si sostiene che la corporazione degli avvocati sia restia ai cambiamenti e alle liberalizzazioni per proteggere i privilegi della categoria: credo sia evidente, viceversa, che le riflessioni fatte abbiano a cuore la miglior tutela dei cittadini e il futuro professionale dei giovani.

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