Sono tempi in cui occorre mantenere il sangue freddo. Mi riferisco ai dati mirabolanti che con gran clangor di buccine appaiono sui quotidiani e in tivù: le liberalizzazioni del governo Monti produrrebbero una crescita del Pil di circa il 10% e via discorrendo con altre stupefacenti cifre. Da vecchio studioso dell’America Latina ricordo che solo sotto il governo del generalissimo Peròn si usavano strombazzare dati statistici così avventati. Eppure c’è una gran differenza tra Monti e Peròn. Forse la situazione economica e sociale argentina presenta delle complementarietà, ma sicuramente i due uomini incarnano stili e culture opposte.
Che cosa è successo? È successo che la matematica, anzi le equazioni e le derivate si sono trasformate in superfetazioni ideologiche. Ossia, gli economisti e la gente comune cosiddetta medio-colta credono veramente che ciò sia possibile. Tutto ha dell’incredibile. Questo rende molto difficile una discussione razionale, come quella, per esempio, che l’Istituto Bruno Leoni ha iniziato a fare con somma precisione, anche se talvolta qualcosa concedendo al fumus ideologico.
Il problema è quello del rapporto tra codeste liberalizzazioni, su cui non ritorno, e la crescita economica, e su questo rapporto invece qualcosa mi pare necessario dire. Credo che la storia economica mondiale e le teorie della crescita più avvedute (e per me sono quelle realistiche, ossia anti-neoclassiche) ci confortano nella credenza che il rapporto tra liberalizzazione e crescita economica si differenzia per i seguenti motivi.
Il primo è quello delle fasi storiche in cui si trova una nazione o un’area geografica. È rarissimo che il processo di liberalizzazione contraddistingua le prime fasi dell’industrializzazione, così come le prime fasi della creazione delle società neo-industriali o dei servizi avanzati. In questa fase generalmente prevalgono dualismi e varietà nelle forme proprietarie a seconda delle dimensioni di scala. In quelle ampie prevale l’oligopolio. In quelle piccole prevale la molteplicità degli operatori e una sviluppata concorrenza.
La seconda variabile è quella dei settori in cui si esercitano le liberalizzazioni. Nel caso dei monopoli naturali che si uniscono a monopoli tecnici, spezzare i monopoli tecnici non induce un aumento della crescita, ma generalmente un aumento dei costi di distribuzione dei beni. È il caso del gas, per esempio. Nel caso, invece, di non presenza di monopoli naturali ma di monopoli tecnici, l’abolizione di questi ultimi può indurre a dei risultati positivi, tanto dei costi di distribuzione che di produzione. Nel caso dei servizi alla persona forniti da ordini castali che non incorporano regole per la qualità dei servizi, la liberalizzazione e l’abolizione di tali ordini è positiva e va incoraggiata. Nel caso invece di associazioni che incorporano nel loro monopolio regole e qualità del servizio le forme di liberalizzazione possono abbassare la qualità del servizio stesso con gravi danni per il consumatore stesso. Penso, per esempio, alle società di certificazione dei servizi di qualità e di sicurezza che sono nate dai registri navali: in tutto il mondo son divenute fondazioni o trust anglosassoni, pena la perdita dell’indipendenza.
Naturalmente il periodo storico in cui si svolgono le liberalizzazioni è decisivo. Quale sia oggi la formazione economico-sociale prevalente in Italia è difficile dirlo. Siamo un intreccio di molte formazioni economico-sociali. Il terziario avanzato è prevalente nel Nord così come la piccola e media industria e la formazione economico-sociale nordista è pienamente capitalistica, pur incorporando in sé pesanti posizioni di rendita. Questo come sappiamo è un dato del capitalismo avanzato, soprattutto ora che la finanza ad altissimo rischio e a bassa erogazione di credito domina e divora l’industria. Il Mezzogiorno è ripiombato nella società tradizionale dopo la fine dell’industria di Stato pur mantenendo le caratteristiche di una società consumistica nonostante le grandi divaricazioni nei redditi. Il Centro Italia è un incrocio di queste due formazioni economico-sociali, con micro-industria, servizi avanzati e forti società tradizionali familisticamente orientate.
In tutte queste tre formazioni economico-sociali se ne è incistata una quarta: quella del capitalismo a più o meno alto gradiente cleptocratico tipico della circolazione delle elites politiche personalistiche che oggi, dopo le privatizzazioni senza liberalizzazioni di stampo prodiano, hanno sostituito quelle della vecchia industria a partecipazione statale operando a livello territoriale attraverso la vasta rete di municipalizzate e di fondazioni bancarie.
I provvedimenti del governo Monti hanno una caratteristica saliente, che è positiva, insistono sulle liberalizzazioni piuttosto che sulle privatizzazioni e questo è un passo in avanti rispetto alla spoliazione familistica realizzata negli anni Novanta. Quelle privatizzazioni, del resto, sono state alla base della decrescita industriale del Paese e del suo complessivo indebolimento economico. In questo senso ogni volta che le liberalizzazioni smantellano posizioni di rendita sono da accogliere positivamente, perché il vecchio modello ricardiano della teoria della crescita, che l’indimenticabile Claudio Napoleoni rinverdì, è quello che funziona ancora meglio di tutti gli altri. Naturalmente bisogna capire che cosa è rendita e che cosa è invece accumulazione di piccole fortune necessarie, per esercitare il proprio lavoro autonomo o cooperativo di secondo grado (e quindi profitto): i notai e i farmacisti non sono i poveri taxisti, per esempio.
La cosa che sconcerta è l’errore che il governo Monti – e questo è l’elemento molto negativo – ha compiuto, sulla scorta degli ormai storici e storicamente famigerati decreti Letta-Bersani, in merito ai rapporti tra monopoli naturali, monopoli tecnici e liberalizzazioni. Lo scorporo di Snam dall’Eni, se effettuato a prezzi di mercato e in forma equa anche per gli azionisti di minoranza, non potrà che favorire l’Eni dandole l’ossigeno per diventare una major di respiro sempre più internazionale, ma danneggerà enormemente l’Italia e la sua crescita, sia in termini di occupazione, sia in termini di prezzi, che non dipendono certo dalla distribuzione, quanto invece dalla capacità contrattuale alla fonte di estrazione.
L’altro elemento profondamente negativo è il mancato scorporo invece dei monopoli tecnici tout-court come nel caso della proprietà della rete ferroviaria e dell’esercizio sulla medesima da parte di altri attori. E qui veniamo al punto caratteristico di queste liberalizzazioni: la creazione di super authorities che dovranno gestire le reti. In linea di principio non si può che guardare con favore a questa ipotesi, a patto che in queste authorities si aboliscano in consigli di plurinominati e si sostituisca a essi un’autorità monocratica di un solo, o sola, civil servant su cui si realizzi l’accordo di tutte le forze che concorrono alla sua nomina, evitando la lottizzazione partitica e di interesse che ha caratterizzato sempre le authorities in Italia.
Infine, c’è un grande assente nel capitolo delle liberalizzazioni (trascuro qui tutta la questione delle assicurazioni, ecc., che mi pare vada nel verso giusto). Mi riferisco alle banche, all’unica riforma liberale e liberalizzante che può salvarci dalla crisi endemica: spezzare in due l’industria finanziaria, separando banche commerciali da banche d’affari ora unite sotto l’ombrello devastante della banca universale ad altissimo rischio per i depositanti. Certo, si dovrebbe fare a livello europeo. Ma si può iniziare a farlo anche in Italia.
Infine, un’ultima osservazione. Mi piacerebbe che nella fase che seguirà alla liberalizzazione si accendesse un faro sulla polifonia delle forme proprietarie, ossia sul fatto che ciò che liberalizzo può assumere non solo forme proprietarie capitalistiche, ma anche low profit, not-for-profit, cooperativo. Il mondo delle multiutilities locali è quello ideale per iniziare un percorso di questo tipo. È chiedere troppo a dei professori, quando appena un anno fa a Olinor Olstrom, teorica dei common goods, è stato dato il Premio Nobel?