Una volta tanto, gli organi d’informazione hanno aperto la settimana con una buona notizia: il governo italiano ha un piano per ridurre il debito pubblico. L’annuncio, divulgato con un’enfasi che si addice a politici smaliziati più che a un sobrio team di tecnici, è arrivato dalle colonne de Il Corriere della Sera ed è subito rimbalzato ai quattro angoli della rete. In attesa dei dettagli ufficiali e dei probabili colpi di scure, un breve viaggio intorno al debito pubblico può aiutarci a mettere in prospettiva alcuni aspetti meno conosciuti.



Cominciamo dalle cifre. Con un debito pubblico stimato a fine 2011 sui 1905 miliardi di euro, l’Italia ha un rapporto debito pubblico/Pil pari a circa il 118%. Tra le economie sviluppate, non è un numero così anomalo: come mostra il grafico qui sotto, gli unici paesi con un indice inferiore al 90% sono Germania e Spagna. Il primo è a quota 87% e, a fronte di un Pil relativamente “stabile”, il suo debito pubblico non accenna a fermarsi (+30% negli ultimi tre anni); il secondo Paese, la Spagna, si trovava al 36% solo cinque anni fa e di questo passo l’ingresso nel club del 90% arriverà in tempi brevi.



Una precisazione tecnica: le fonti di questi e dei prossimi dati sono l’Ocse e Bloomberg per quanto riguarda i paesi esteri, mentre per le statistiche nazionali le agenzie qui sopra sono integrate dai rapporti Istat. L’impostazione dell’analisi che segue si basa principalmente sul lavoro di J. Gokhal, “Measuring the unfunded obligations of European Countries”, pubblicato nel 2009 e citato ultimamente a più riprese, dal Comitato di Basilea come dal Financial Times.

L’analisi di Gokhal parte dal Pil e dal debito pubblico e cala la sostenibilità di questi due fattori in una prospettiva temporale, approccio che, oltre a essere logico, entra nel merito delle critiche rivolte ai governi occidentali da più parti, agenzie di rating in primis. Gokhal fa un passo in più: prende i costi futuri dei programmi di spesa attuali e li sottrae agli introiti attesi dalla pressione fiscale. Essendo la spesa pubblica superiore agli introiti, la differenza tra i due è negativa ed è un passivo privo di copertura finanziaria.



Qui arriva la seconda colonna del grafico: il rapporto tra questo passivo “scoperto” e Pil riserva qualche sorpresa. L’Italia è, ad esempio, il secondo Paese più virtuoso dopo la Spagna, mentre ai livelli attuali di crescita Grecia, Francia e Stati Uniti vivono molto al di sopra delle proprie possibilità.

 

Un ulteriore chiarimento: i numeri nel grafico assumono livelli di Pil, di spesa e di tassazione costanti e quindi sono il risultato di una serie di ipotesi (tassi di interesse, inflazione, aliquote fiscali, ecc.) sulle quali si possono avere visioni diverse. Ma, considerati gli importi in gioco, la sostanza difficilmente cambia: la crescita a debito non solo è finita, ma è già oggi insostenibile.

A questa prima conclusione, dobbiamo aggiungere un mio cavallo di battaglia: in tempi di economie di mercato e liberalizzazioni, al debito pubblico bisogna aggiungere il debito privato. Come mostra il grafico più in basso, i nuclei familiari occidentali sono a volte costretti a sostenere livelli di indebitamento superiori ai propri Stati nazionali: è il caso di Spagna, Regno Unito e Irlanda.

Così come abbiamo fatto per gli Stati, mettiamo “in prospettiva” anche la popolazione occidentale: nel 1990 il 14,6% della popolazione residente nell’Unione europea aveva almeno 65 anni. Nel 2020 lo stesso segmento rappresenterà il 20,7% dei cittadini Ue e la tendenza, complice non solo il benessere ma anche il calo delle nascite, è in continuo aumento. Inutile girarci intorno: chiedere allo Stato di occuparsi di noi, qualsiasi la generazione cui apparteniamo, non è più possibile.

 

 

Senza più la scorciatoia del debito e con la necessità di responsabilizzare le persone, i governi europei hanno almeno un paio di passi obbligati. Primo: per non compromettere inesorabilmente la crescita, il debito pubblico non si rimborsa, si rifinanzia. E per farlo ci vuole coraggio e credibilità politica. Per questo le misure shock, le valorizzazioni una tantum e pure gli annunci trionfalistici a mezzo stampa sono importanti. Perché una gestione efficace dell’emergenza crea aspettative di crescita e apre la strada a un futuro migliore. Ma presto o tardi questo circolo virtuoso ha bisogno di conferme fattuali.

E qui arriva il secondo passo: le liberalizzazioni devono permettere alle forze vitali del Paese di ritornare protagoniste. È in realtà un grande passo perché Stato e membri della società, tutti noi insomma dovremo ripensare il modo in cui oggi rispondiamo ai nostri bisogni e trovare il coraggio per idee e soluzioni in prima persona. Qualsiasi decisione rimandi questa sfida, presto o tardi, presenterà il conto. E sarà altro debito sul nostro futuro.