La priorità del governo, la ragione stessa del suo insediarsi, consisteva nel fornire garanzie all’Europa e agli investitori circa la nostra capacità di solvenza. Quindi, anzitutto, riducendo il nostro debito pubblico (e non solo il deficit). Operazioni, in tal senso, non sembrano esser state prese in considerazione. Gli ultimi provvedimenti, infatti, ammontano, complessivamente, a poche decine di miliardi. Va da sé che, su un debito di circa 1900 miliardi, l’incidenza è pressoché nulla. «Dobbiamo tener conto della contingenza che si era venuta a creare a novembre. Avevamo dei tassi sul debito pubblico a breve termine estremamente alti, più alti di quelle a lungo termine, con spread estremamente elevati. L’impressione degli operatori del mercato, mediamente, era che se l’Italia avesse dovuto fare default, lo avrebbe fatto nell’arco di uno o due anni», spiega, per chiarire al situazione, Gianluca Femminis, docente di Economia politica alla Cattolica di Milano interpellato da ilSussidiaio.net. «A quel punto, era necessario far fronte all’emergenza con misure che creassero immediatamente gettito. Ma “immediatamente” significa in un arco di, almeno, uno o due anni». Per non far danni, infatti, bisogna stare attenti a non compiere “colpi di testa”. «Una dismissione del patrimonio immobiliare che non sia una svendita, ad esempio, richiede un’attenta valutazione, decidere quali assets vendere, e quali tenere. È un’operazione delicata, che richiede del tempo».
Contestualmente, il governo sarebbe riuscito in un’altra impresa: «Per il 2013 è previsto il pareggio di bilancio. E un’inversione delle stime: pare, infatti, che a partire dalla seconda metà del 2012 ci sarà la ripresa. Che, seppur debole, manderà all’Unione europea e ai mercati il segnale che l’Italia è in grado di governare i conti pubblici». Tornando al debito, e alla misure per rifinanziarlo, «si è parlato a lungo – dice Femminis – del Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf). Personalmente, dubito che il sistema sia effettivamente praticabile. Anzitutto, perché i tempi dell’economia non sono quelli della politica, ma molto più rapidi. Inoltre, un titolo di Stato emesso da un governo o da un’istituzione sovrannazionale viene acquisito sulla capacità di tali entità di ripagare il debito e i propri interessi. In sostanza, compriamo il debito pubblico italiano perché convinti che il gettito fiscale sarà sufficiente a pagarne gli interessi». In un sistema di questo genere le cose si complicano. «Non c’è alcun potere in grado di garantire tale gettito fiscale». In sostanza, si riduce il debito creandone di nuovo. «Viene trasferito a un’altra entità che avrà problemi di rifinanziamento».
Il vero modo per porre mano alla questione della riduzione del debito pubblico, quindi, restano le dismissioni: «Occorre vendere parte del patrimonio immobiliare italiano. Che, tuttavia, benché immenso, è difficilmente quantificabile. Oltretutto, si deve procedere con i piedi di piombo onde evitare liquidazioni e svendite». Marco Fortis, su queste pagine, proponeva di emettere degli “Italian Bond”: «Prendiamo parte delle riserve auree di Bankitalia (che sono superiori a quelle francesi), le quote pubbliche di aziende come Terna o Rete Gas, parte del patrimonio pubblico dismesso e mettiamo tutto in una società che possa emettere obbligazioni».
Tali titoli sarebbero estremamente pregiati perché iper-garantiti. «Andrebbe offerta, in maniera prevalente agli italiani, la possibilità di sottoscriverli. Successivamente, se gli stranieri dovessero comprare i bond italiani a tassi ragionevoli, bene. Altrimenti, lo Stato potrebbe utilizzare le risorse ottenute dagli Italian bond per ricomprare parte del debito pubblico estero». Ma, secondo Femminis, l’operazione non sarebbe esente da problemi: «Il debito pubblico è facilmente trasferibile. Da un giorno all’altro il debito detenuto in Italia potrebbe andare in mano a un’istituzione finanziaria estera e viceversa».