Alla fine dell’estate scorsa Lai Xiaodong, 22 anni, ha lasciato il villaggio natio per rispondere alla chiamata della grande fabbrica di Chengdu: nientemeno che Foxconn, il gigante da mezzo milione di dipendenti che ha sfornato, tra le altre meraviglie della tecnologia, i 37 milioni di nuovi iPad venduti da settembre a dicembre. Probabilmente Lai Xiaodong non ha però mai avuto l’occasione di schiacciare l’icona dello start e vedere, illuminato, lo schermo lucido dell’iPad. Eppure quello schermo gli è costato la vita: l’accumulo della povere di alluminio utilizzata nel reparto finale per la pulizia dello schermo dell’iPad ha provocato un’esplosione improvvisa e violenta, fatale per Lai e tre suoi colleghi più altri 18 feriti, più o meno gravi.



Ieri mattina il New York Times ha pubblicato un ampio reportage sulle condizioni di lavoro della fabbrica di Xhengdu, dove le ripide scale esterne della città-dormitorio sono sigillate da reti d’acciaio dopo l’ondata di suicidi di un paio di anni fa. Un atto d’accusa imbarazzante per Apple, ma non solo, visto che della fabbrica di Chengdu, di proprietà di un miliardario di Taiwan che progetta di sostituire entro il 2020 gli operai con altrettanti robot, si servono un po’ tutti: Dell, Hewlett-Packard, Ibm, Lenovo, Motorola, Nokia, Sony, Toshiba e tanti altri.



Ma le notizie dalle fabbriche cinesi arrivano in contemporanea coi nuovi record della Mela: 13 miliardi di profitti in tre mesi, una capitalizzazione di 416 miliardi. Più ancora: lo stipendio che, tra bonus, stock options e busta paga, si è portato a casa nel 2011 Tim Cook, l’uomo che ha preso in mano il timone di Apple dopo la scomparsa del genio Steve Jobs: 378 milioni di dollari. Può valere il lavoro di un uomo, per bravo che sia, 378 milioni di dollari? Si può giustificare la forbice di salario che separa i lavoratori Usa dal top manager? E che giustificazione può avere uno stipendio del genere quando si guarda alle condizioni di lavoro di Chengdu o di altri fornitori?



Certo, l’azienda di San José ha pubblicato un codice di comportamento per i fornitori, fino a poco tempo fa tenuti gelosamente segreti. Oggi si sa qualcosa di più. Ovvero, come nota il giornale Usa, almeno la metà dei fornitori ha violato le leggi sul lavoro del Paese d’appartenenza (Cina o sud-est asiatico) in almeno una’occasione. “Apple non si è preoccupata d’altro che di aumentare la qualità e ridurre i costi dei prodotti”, accusa Li Mingqi, già dirigente di Foxconn, oggi avvocato per conto delle vittime degli incidenti sul lavoro. Al quartier generale dell’azienda, sottovoce, il New York Times ottiene qualche conferma: in realtà, i dirigenti, a partire da Jobs, hanno cercato di fare qualcosa in più di un’occasione. Ma come si fa? Il mercato ha fame di iPhone, iPad e così via. Non possiamo perder tempo, insomma, Anche perchè abbiamo tanti, meravigliosi nuovi prodotti in attesa.

Insomma, la colpa è del mercato, che è padrone. O forse no. Il Financial Times ha appena calcolato che se il rapporto tra salari e capitale in America fosse rimasto lo stesso dell’inizio anni Cinquanta, ogni lavoratore guadagnerebbe 5 mila dollari in più l’anno che, in totale, fanno la bellezza di 740 miliardi. Ecco, in cifre, l’impoverimento della classe media che, in condizioni diverse (ma non troppo), riguarda anche le società europee. Le cause? Senz’altro ha il suo peso la concorrenza tra paesi con condizioni economiche diverse che porta le aziende a favorire quelli meno costosi. Così come la tecnologia che ha ridotto il potere contrattuale della forza lavoro. Pesa anche l’indebolimento del sindacato. Ma questi fattori, presenti ormai da almeno 15 anni, argomenta il Ft, non spiegano perché il fenomeno di polarizzazione della ricchezza, che minaccia da vicino gli equilibri del mondo che fu ricco, si è manifestato con tanta virulenza negli ultimi 5-6 anni.

Certo, dal 2007 il mondo è in crisi. Ma una crisi diversa da quelle che l’hanno preceduta. Le recessioni del Secondo dopoguerra hanno pesato sui profitti delle imprese, mentre, in vista della ripresa, le aziende hanno investito, a scapito dei dividendi, e difeso la manodopera più qualificata. Stavolta, invece, la crisi dell’economia e dell’occupazione, oltre che dei consumi, coincide con profitti record delle società multinazionali, testimoniate dai 100 miliardi di dollari nelle casse di Apple, più del conto corrente del ministero del Tesoro Usa, una cifra sufficiente a salvare la Grecia dal default. Le corporations, in Usa come in Europa, sono più ricche in società più povere, grazie all’uso del dumping sociale e fiscale e a un sistema di valori (e di remunerazione) che privilegia il manager rispetto agli altri stakeholders, azionisti compresi.

Il genio del capitalismo è uscito dalla bottiglia, affermano osservatori insospettabili che hanno animato il convegno milanese dell’Aiaf, l’Associazione italiana degli analisti finanziari, dal titolo “Finanza: la serva padrona?”. Basti pensare a quel che succede nelle Borse del pianeta: ormai tre quarti degli scambi sono frutto di Hft, operazioni in nanosecondi attraverso programmi automatici che consentono di far soldi, senza rischio, senza tenere in minimo conto il valore intrinseco del titolo.

Si spiega così perché, ad esempio, il 90% abbondante degli scambi in Piazza Affari si concentri sul paniere dei quaranta titoli più liquidi lasciando le briciole agli altri 180. O, soprattutto, facendo così venir meno il ruolo del mercato azionario come canale di finanziamento per le imprese . Di questo passo la Borsa assomiglia sempre di più a un raffinato casinò governato da 15 grandi traders che operano tra Wall Street e Londra. Nello stesso modo si può capire perché cinque operatori (sì proprio cinque) controllino il mercato dei famigerati cds su cui si calcola il rischio Paese. Il risultato? Le sorti del debito italiano sono in mano a gente che ha fatto il pieno di cds per proteggersi dal default del Bel Paese senza nemmeno possedere un Btp. Ma se io stipulo cinque assicurazioni sulla casa, ho senz’altro convenienza a dare fuoco alla cucina…

Non stupisce, in questa cornice, che i mass media più avveduti, dal The Economist al New York Times, fino al tedesco Die Welt, abbiano avviato un dibattito sul sistema, senza nessuna mira rivoluzionaria, ma per cercare di riparare una situazione che non promette nulla di buono. Stupisce, semmai, che di fronte alla gravità della situazione si pensi per davvero che sia sufficiente far tirare la cinghia a italiani e spagnoli o invocare il rafforzamento dello yuan rispetto al dollaro per raddrizzare la baracca.

Ben venga il “Fiscal Compact” europeo, purché sia l’anticamera di un’azione forte per recuperare il primato della democrazia. Altrimenti, consoliamoci con la qualità dell’ultimo i Pad. “Lo sappiamo – confessa un anonimo dirigente di Apple – che da almeno quattro anni ci sono continue violazioni delle norme di lavoro presso i nostri fornitori. Ma in questi anni il mercato ci ha chiesto e continua a chiederci continue novità. E noi, per evitare che qualcuno prenda il nostro posto, dobbiamo correre, fornendo in tempo sempre nuove soluzioni. Per questo dobbiamo chiedere ai fornitori di tirare la corda. E loro non hanno scelta: se non fornissero sempre prodotti migliori a prezzi minori, credete che Apple darebbe ancora lavoro? Davvero credete che potremmo permetterci il lusso di aspettare nuove fabbriche e nuovi stabilimenti?”. Insomma, magari è colpa di noi consumatori.