«Beh, è assai verosimile, visto che in Germania, come in molti altri paesi (Usa in testa), banche e governo gestiscono strategie comuni nell’interesse del proprio Paese. In Italia speriamo di cominciare…». Questa la risposta, chiara e netta, che un banchiere popolare ha dato alla mia domanda riguardo una diversa interpretazione dell’attivismo politico tedesco nei confronti dell’Italia, mentre su giornali e telegiornali impazzavano le interpretazioni e i commenti riguardo il presunto scoop del Wall Street Journal. Dico presunto non perché la telefonata tra Angela Merkel e Giorgio Napolitano non ci sia stata, la hanno ammessa gli stessi protagonisti, ma perché la volontà teutonica di scaricare sull’Italia i costi della crisi del debito, evitando quindi i peggiori contraccolpi ai cittadini tedeschi, è ben più articolata e di lunga data rispetto al contatto telefonico del 20 ottobre scorso tra Cancelliera e Quirinale, assolutamente ininfluente rispetto a quanto architettato e messo in pratica nei 12 mesi precedenti.



Insomma, non c’è da stupirsi, se non del fatto che i politici italiani non si siano resi conto di quanto stava accadendo dal maggio 2010 e non lo abbiamo denunciato apertamente, anche a rischio di intaccare le relazioni bilaterali e i rapporti in sede europea, anche a costo di scenate stile Margaret Thatcher a Fontainebleu: questa è la vera colpa di Silvio Berlusconi, non festini o altre amenità. Non c’è da chiedersi se sia vero che la Germania ci abbia dichiarato guerra, mostrando il sorriso europeista alle telecamere, ma perché nessuno abbia battuto ciglio. Al limite, a livello accessorio, c’è piuttosto da chiedersi come avrebbero reagito, a parti invertite, gli insopportabili e boriosi media tedeschi: ovvero al fatto che Silvio Berlusconi bypassasse bellamente e irritualmente la sua omologa per telefonare al Presidente Christian Wulff e con lui lamentarsi dei continui veti e rigidità in ambito europeo della Merkel. A occhio e croce, avrebbero scatenato la Terza Guerra mondiale.



Non mi interessa, quindi, cosa si siano detti Angela Merkel e Giorgio Napolitano: il Presidente della Repubblica ha avuto il garbo istituzionale di rispondere alla chiamata e poco mi importa che abbiano parlato del tempo, di ricette, di vacanze o della necessità di far fuori Berlusconi. Io so che la Germania ci ha mosso guerra dal maggio del 2010 e che il luglio del 2011 ha rappresentato la fase attuativa finale dell’attacco: della telefonata del 20 ottobre non mi deve e non ci deve importare nulla, fatta salva la richiesta della Lega Nord di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso (amici leghisti, in questo Paese ancora non sappiamo chi sono i colpevoli per Piazza Fontana e Piazza della Loggia e fino a poco tempo fa al governo, insieme a voi, c’era qualcuno che sembrava pronto ad avvalorare la tesi del piccione-kamikaze per il Dc9 di Ustica).



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Insomma, nel maggio del 2010, cosa successe? Al vertice dei Capi di Stato e di governo tenutosi il giorno 7, non solo si dava via libera agli aiuti alla Grecia in cambio di un programma lacrime e sangue di tagli e riforme, ma si spalancava il vaso di Pandora che prendeva il nome di Mes, ovvero il coinvolgimento dei creditori privati su base volontaria attraverso uno scambio di titoli con sconto nominale: da quel momento la Germania dichiarava al mondo che il mercato del debito europeo non era più esente da rischio, gli haircuts erano realtà (e l’intento puramente destabilizzante viene confermato dal fatto che, a oggi, non è ancora stato raggiunto un accordo tra creditori e istituzioni, sintomo che non c’era né urgenza, né necessità reale e strutturale di quell’intervento). Nonostante questo, i titoli di debito greco rimasero nei portafogli delle banche tedesche almeno fino all’autunno del 2010.

A metà di ottobre, esattamente il 18, lo scenario tuttavia cambiò all’improvviso. Al vertice di Deauville, infatti, la cancelliera Merkel convinse senza troppa difficoltà il Presidente francese, Nicolas Sarkozy, a formalizzare una volta per tutte la questione del “coinvolgimento del settore privato”, cioè delle banche, in caso di default di un Paese della zona euro. Da Deauville venne la famosa dichiarazione congiunta franco-tedesca sulle responsabilità delle banche in caso di fallimento di ogni Paese dell’area dell’euro dopo il 2013. Altro macigno nello stagno della destabilizzazione. Detto fatto, l’Irlanda dovette presentarsi di lì a pochi giorni con il cappello in mano da Ue e Fmi, il Portogallo si mise in lista di attesa e gli spread cominciarono la loro danza macabra, con i paesi cosiddetti periferici costretti a subire la divaricazione dei differenziali rispetto a quelli del centro. I mercati, già nervosi, subirono un supplemento di tensione e incredulità rispetto alla gestione franco-tedesca della crisi.

Un mese dopo Deauville, in un incontro ristretto a Berlino con la cancelliera Merkel e altri tre testimoni, il presidente della Deutsche Bank esternò la critica degli istituti finanziari alla proposta tedesca. L’ipotesi che i privati dovessero pagare un default sovrano dopo il 2013, ma non potessero vendere i titoli legati a quel debito prima di allora, significava che fin da ora avrebbero dovuto calcolare il valore dei titoli in portafoglio come se già fossero colpiti dalla clausola di coinvolgimento nel default. Di fatto, il buon Ackermann preannunciò che la sua e le altre banche tedesche avrebbero ricusato l’accordo del maggio 2010 e avrebbero cominciato a vendere i titoli della periferia dell’area euro. E così fecero, alla faccia dell’unità e della solidarietà europea.

Cosa fece dunque Deutsche Bank, scaricò titoli ellenici a qualsiasi prezzo? Non solo, da dicembre l’istituto cominciò a sgombrare il proprio portafoglio dai titoli sovrani della periferia, a cominciare guarda caso dall’88% di quelli italiani, come riportato dal rapporto trimestrale del direttore finanziario della banca di Francoforte pubblicato a giugno e poi esploso come una bomba a luglio. Nei primi tre mesi del 2011 le assicurazioni vendettero oltre la metà dei titoli greci e cominciarono a liberarsi di quelli della periferia, includendo Spagna e soprattutto Italia. Secondo le statistiche della Bundesbank, già tra il 2010 e il febbraio 2011 le banche tedesche si liberarono del 40% dei titoli greci, mentre le altre attendevano o scaricavano di nascosto quantitativi ben più esigui.

Il problema è che la Germania voleva che i mercati sapessero che le sue banche stavano scaricando i fratelli meno virtuosi dell’Europa, visto che questo metteva in sicurezza il Bund, unico bene rifugio in un continente di cicale e permetteva alle sue banche di depurare i propri bilanci con netto anticipo sulle concorrenti, quindi evitando di svendere a qualsiasi prezzo come accade – ed è accaduto – durante una sell-off da panico. E in effetti, le vendite tedesche non passarono inosservate e innescarono quelle delle altre banche dei paesi creditori, oltre a quelle, pesanti, delle banche americane e poi dei fondi d’investimento. Da gennaio 2011 le banche statunitensi sospesero le linee di credito alle controparti italiane e da maggio cominciarono a vendere i titoli pubblici. Un mese prima che i Governi europei si riunissero a Bruxelles per decidere quanta parte del debito greco sarebbe stato “volontariamente” condonato, la scelta strategica della Germania aveva già direzionato la crisi dei debiti sovrani più sensibili, spagnolo e italiano.

Ed eccoci a luglio, per l’esattezza al 26, quando – come già anticipato – la grande stampa dà conto all’opinione pubblica del fatto che Deutsche Bank avesse venduto 7 degli 8 miliardi di sua esposizione al debito sovrano italiano, annunciando contemporaneamente l’acquisto di cds italiani come protezione dal rischio. Insomma, un attacco in piena regola verso il nostro Paese e il nostro debito, guarda caso a pochi giorni dall’impazzimento totale dello spread agostano, dalla pubblicazione a orologeria della lettera della Bce giunta a luglio e dalla scelta della stessa Eurotower di supportare con acquisti i bonds italiani e iberici, concessione di Berlino al silenzio europeo rispetto alle tresche delle sue banche, nei fatti azioniste di maggioranza della Bce stessa.

Ma all’interno della nota diramata da Deutsche Bank, l’istituto parlava di una cosiddetta “transazione strutturata”, riguardo la quale però la stessa banca si è rifiutata di fornire qualsiasi altro particolare. L’Eba, l’autorità bancaria europea, la stessa che ha modellato sulle esigenze della banche tedesche i suoi criteri di ratio Tier 1 e di rivalutazione delle detenzioni obbligazionarie, non ha avuto nulla da ridire al riguardo? No, nulla. Accettò la vulgata in base alla quale le banche non italiane si coprivano contro il rischio di default italiano, poiché questo permetteva loro di operare con maggiore tranquillità rispetto alle esposizioni verso istituti di credito e aziende del Bel Paese.

Ma al riguardo, a inizio dello scorso agosto, ecco cosa diceva a ilsussidiario.net, lo scrittore e analista finanziario inglese, Nick Dunbar: «Comunque sia, occorre dire che queste banche potrebbero in effetti avere un incentivo a far detonare i cds sull’Italia in futuro, se gli interessi dei loro azionisti lo richiederanno». Perché le banche tedesche hanno potuto scaricare debito sovrano nonostante gli accordi europei lo vietassero fino al default del Paese che lo aveva emesso? La Merkel lo sapeva, visto l’incontro con Ackermann: perché lo ha permesso? O, forse, ha avallato la scelta? Magari, addirittura, consigliata e coordinata attraverso l’integerrimo e severissimo Wolfgang Schauble, ministro delle Finanze? Perché Deutsche Bank ha svenduto tutto il suo stock di debito italiano, salvo ricomprarne per circa 1,2 miliardi a ottobre – quando i rendimenti erano saliti a razzo grazie alle divaricazione dello spread – e contemporaneamente ha scatenato i mercati coprendosi in massa con cds italiani? Perché, nel pieno di questa bufera, per due volte – il 21 luglio e all’inizio di novembre scorsi – Angela Merkel ha parlato a livello ufficiale di rischio default greco, di rispetto pedissequo (anche a rischio di devastare il Paese) delle regole del salvataggio, pena l’abbandono dell’eurozona da parte di Atene, disintegrando del tutto il residuo di concetto di risk-free market per il debito europeo?

Aveva taciuto per mesi, negando a ogni piè sospinto la possibilità di uscita o espulsione dall’eurozona di qualunque Paese membro, perché avanzare sibillini dubbi proprio in occasione di vertici ufficiali e mentre la danza dello spread era ormai diventata una marcia funebre e in Grecia si tentava di dar vita con difficoltà a un nuovo governo (poi nato anch’esso nel solco della tecnocrazia)? All’epoca del secondo tackle a gamba tesa di Angela Merkel, qualcuno pose l’accento sulla pericolosità di quell’atto, ma nessuno sembrò ascoltare. Si trattava di Joachim Fels, capo economista di Morgan Stanley a Londra, secondo cui Merkel e Sarkozy avevano pericolosamente messo in discussione un tema fino ad allora tabù, ovvero proprio la possibile uscita di uno Stato dall’eurozona.

Scriveva Fels: «Questa è la seconda volta in quattro mesi in cui i leader europei hanno di fatto creato le condizioni per aprire il vaso di Pandora: la prima fu il 21 luglio, quando la decisione formale di coinvolgere il settore privato nel salvataggio greco segnalò ai mercati che l’area euro non era più esente da rischi, atto che innescò un pesante contagio ai mercati del debito italiano e spagnolo. La scorsa settimana, rendendo nota la possibilità che un nazione potrebbe essere obbligata a lasciare l’eurozona, i governo dell’Europa centrale potrebbero aver messo in movimento una sequenza di eventi che potrebbe potenzialmente portare con sé attacchi alle banche e ai debiti sovrani dei paesi periferici, un qualcosa che potrebbe trasformare in benigno quanto fino a oggi abbiamo visto della crisi».

Ma soprattutto, perché all’ultimo vertice europeo tenutosi a inizio dicembre a Bruxelles, quello dell’esordio in grande stile di Mario Monti, la Germania ha gettato alle ortiche le decisioni prese a ottobre dell’anno prima a Deauville, rinunciando al coinvolgimento del settore privato in eventuali futuri salvataggi nell’ambito dell’Esm, l’European stability mechanism? Forse perché la missione era già compiuta e si poteva cercare di tranquillizzare i mercati, rimangiandosi la decisione scatena-caos e ammazza-Italia? O forse perché un paio di settimane prima, il 23 novembre per l’esattezza, dal vaso di Pandora era uscita un’asta fallimentare di Bund, con la Bundesbank costretta a comprare oltre il 40% dell’emissione per non farla fallire e con rendimenti in salita al 2% sul mercato secondario, 21 punti base sopra i Treasuries statunitensi e con un rendimento superiore persino dei gilts britannici?

I mercati, dopo aver messo sotto pesante pressione Francia e Belgio grazie alle strampalate iniziative tedesche, infine avevano detto chiaramente alla Germania che nemmeno il suo debito era più risk-free, quindi sarebbe stato meglio comportarsi di conseguenza. Quale sia stato l’epilogo di questa strategia è chiaro: la telefonata tra Merkel e Napolitano è soltanto un orpello, inutile, procedurale ancorché irrituale, forse persino romanzato. Roba che piace agli americani, retroscenisti non tanto per vocazione, quanto per interesse particolare e poco amore per la lotta ad armi pari e a viso aperto. Le decisioni erano già state prese da oltre un anno, la strategia era chiara. E nessuno aveva avuto nulla da ridire.

Ora, con un governo italiano guidato da un premier che si dice chiaramente più interessato a tranquillizzare l’opinione pubblica tedesca che guidare il suo Paese e rendere conto del suo operato ai suoi connazionali, pensate che la strategia tedesca sia stata inutile? Io so solo che a fronte della spocchia rigorista da prima della classe, il 14 dicembre scorso Berlino ha riattivato il suo fondo di salvataggio del settore finanziario da 360 miliardi di euro complessivi (60 di potenza di fuoco per ricapitalizzazioni dirette e 300 di garanzie) per tutelare le banche dall’intensificarsi della crisi del debito: il fondo, istituito all’apice della crisi finanziaria nel 2008, era stato chiuso nel 2010.

Insomma, lungi dal trovare una soluzione per creare un reale firewall sui mercati, sia esso il fondo Efsf o il suo nipotino Esm oppure il Fondo Pincopallino, Berlino mette le mani avanti e pensa ai fattacci suoi e delle sue banche, le quali stando alle stime dell’Eba hanno necessità di nuovo capitale per 13,1 miliardi di euro (minori di quelle italiane), con la sola Commerzbank, la seconda banca del Paese, a cui servono 5,3 miliardi di ulteriore patrimonio che non riesce a reperire sul mercato. Veti e nein per tutti, ma grande magnanimità per quei fondi speculativi sottocapitalizzati che rispondono al nome di Deutsche Bank, Commerzbank e Landesbanken varie.

Ora rileggete le parole di quel banchiere popolare citato all’inizio dell’articolo: «Beh è assai verosimile, visto che in Germania, come in molti altri paesi (Usa in testa), banche e governo gestiscono strategie comuni nell’interesse del proprio Paese. In Italia speriamo di cominciare…». E riflettete.

 

P.S. Positivamente sorpresi dalla discesa del nostro spread ieri mattina? Non esagerate nell’ottimismo, è solo perché ieri nel mirino dei mercati c’era la Francia, con il differenziale Oat-Bund in salita a quota 134. Giovedì, infatti, un primo banco di prova della tenuta della cosiddetta Europa core ci sarà offerto proprio da un’asta di Oat francesi per un ammontare di 7-8 miliardi di euro, così suddivisi: titoli a scadenza ottobre 2021 al 3,25% per un ammontare di 3,5 miliardi, Oat a scadenza ottobre 2023 al 4,25% per un ammontare di 1,5 miliardi di euro, obbligazioni a scadenza aprile 2035 al 4,75% per 1,5 miliardi di euro e Oat a scadenza 2041 al 4,5% per un ammontare di 1,5 miliardi. Bon chance, monsieur Sarkzoy. Anche perché se l’asta andrà male, il downgrade del rating si avvicina parecchio. Il 13 gennaio, poi, tocca ai nostri Btp per un ammontare di 6 miliardi di euro. Alè!