Oggi a Bruxelles il vertice dei Capi di Stato dell’Ue discuterà delle misure per affrontare la crisi dell’euro, dai conti della Grecia fino all’adozione del trattato ribattezzato “Fiscal Compact”, che dovrebbe fissare nuove regole nella gestione dei conti pubblici dei paesi dell’Eurozona. Per comprendere meglio quanto è in gioco in questo vertice europeo abbiamo rivolto quattro domande a Gianni Credit, giornalista economico e a Marco Lira, manager di una società di investimento di rilievo globale con sede negli Stati Uniti.
1) Il vertice Ue sulla stabilizzazione dell’euro si annuncia come risolutivo. Quali sono le attese?
Marco Lira – Credo che le aspettative di un maggior coordinamento delle politiche fiscali europee per mezzo di una maggiore rigore fiscale e un assetto istituzionale più appropriato abbiano trovato risposta nella proposta di riforma del patto di stabilità e nel cosiddetto “fiscal compact”. Il nuovo sistema è decisamente più chiaro del precedente, lasciando meno spazio per l’interpretazione e conseguente interferenza politica dei singoli Stati. L’aspetto di maggiore chiarezza penso sia il punto fondamentale che possa far riguadagnare all’Europa la credibilità e la fiducia degli investitori stranieri. Osservata dall’estero, credo che nei mesi scorsi l’Europa sia stata danneggiata più dalla mancanza di chiarezza sul da farsi e dalla confusione dominante che dal gioco delle cifre sui rapporti debito/Pil o deficit/Pil. La varietà di esperienze che caratterizza gli Stati dell’area euro è certamente una ricchezza, ma quando l’unico obiettivo dei diversi Stati diventa la propria sopravvivenza o il sottolineare la propria differenza di veduta, l’unico risultato è che sono tutti a perderci. A maggior ragione penso che he il vertice europeo dei prossimi giorni rappresenti un passo nella giusta direzione.
Gianni Credit – Salvo colpi di scena del tutto non augurabili, dal vertice uscirà un testo più puntuale e vincolante del comunicato programmatico emesso al termine del summit del 9 dicembre: e questo non potrà non dirsi un successo inconfutabile e non marginale. Ma – come il 9 dicembre – la bozza di riforma dei trattati Ue avrà anzitutto solo 26 firme: non quella della Gran Bretagna, che sullo scacchiere geopolitico ospita l’hub europeo della finanza globale. Il dato economico-finanziario (il progresso del “fiscal compact” a beneficio dell’euro) rischia di essere vanificato dal contesto di perdurante frammentazione politica dell’Unione, che è poi quello che i mercati hanno ripetutamente mostrato di paventare, al di là delle debolezze specifiche della costruzione economica europea. Sarà in ogni caso interessante verificare anche sul piano tecnico la qualità di quello che è inevitabilmente un nuovo compromesso: ad esempio, sul livello di inclusione dei debiti pubblici (e non solo dei deficit di bilancio) nelle nuove procedure rinforzate di disciplina fiscale (sia Francia che Italia temono regole troppo strette). Inoltre, anche all’interno della Ue-“27 meno uno” non sarà facile armonizzare le diverse esigenze: oltre a chi è già al tavolo dell’euro, ma dovrà “riconquistare” il seggio (tra questi c’è anche l’Italia), vi è chi vorrebbe essere seduto al tavolo di quella che si propone di fatto come una “core Europe” pur senza averne ancora soddisfatto i requisiti. La cautela sull’esito sostanziale del vertice non è dunque legata tanto ai fondamentali politico-istituzionali (su cui il giudizio non può che essere positivo), ma sulla quella che resta la dimensione-chiave: la percezione dei mercati, che il collasso del 2007-2008 hanno già visto accentuare la naturale tendenza a costruire arbitraggi (letteralmente “speculazioni”) su storie azionarie od obbligazionarie. Ma la questione è e resta di fondo: anche il vertice Ue punta a una “stabilità” che alla fine i mercati non possono amare.
2) Il summit di Bruxelles si annuncia rilevante per la credibilità concreta della “dottrina Merkel”, secondo la quale la tenuta dell’euro e la salute dell’economia europea necessitano anzitutto di austerità fiscale e di ricostruzione della competitività delle singole aziende-Paese attraverso riforme strutturali. È una linea corretta?
La “dottrina Merkel” è accusata di ideologismo da chi (in prevalenza sui mercati e negli Stati Uniti) ritiene che la recessione seguita alla crisi finanziaria possa essere utilmente superata riutilizzando la leva monetaria, sia sul versante interno (rilancio della domanda), sia su quello degli scambi commerciali (svalutazioni competitive). Il cancelliere Merkel – certamente interpretando un “a priori” profondo nella cultura politico-economica tedesca – ripropone invece due idee: a) la moneta (in particolare, la nuova moneta unica europea) e il credito sono beni collettivi troppo importanti per essere lasciati al “gioco” dei mercati, che hanno già parecchio “privatizzato” valute e circuiti finanziari; b) l’economia “del debito” (pubblico e privato) dev’essere ridimensionata e in Europa deve ripartire dall’investimento di capitali “reali” in produzione di reddito “reale”, guardando anche alla maggior pressione industriale delle economie emerse: non può accelerare mobilitando risorse “virtuali” per via esclusivamente monetaria. L’argomento in realtà è articolato: la “dottrina Merkel” potrebbe non funzionare non perché infondata in sé, ma perché si ritrova in minoranza. La stessa Bce di Mario Draghi (probabilmente con una tacita indifferenza da parte di Berlino) si sta concedendo atteggiamenti da “poliziotto buono” che la cancelliera non può o non vuole concedersi. Se – come tutti ci auguriamo – l’economia europea riacquisterà salute e dinamismo non sarà facile attribuire i meriti. O neppure le responsabilità, se per caso la fase negativa dovesse prolungarsi.
Le riforme strutturali e maggiore attenzione alla disciplina fiscale sono elementi necessari e ignorarli costituirebbe un grande errore, come hanno dimostrato gli eventi degli ultimi anni. In molti sostengono che la crisi del debito attuale sia una conseguenza indiretta della precedente crisi finanziaria che ha costretto i governi di molti paesi a intervenire e offrire supporto al sistema bancario trasformando la crisi finanziaria in una crisi fiscale. Per quanto la situazione sia differente da Paese a Paese anche nell’area euro, si può senz’altro dire che la posizione fiscale di molti paesi europei li ha resi più vulnerabili, specialmente in un periodo caratterizzato da grande nervosismo, bassa propensione al rischio e molta miopia da parte dei mercati. Da questo punto di vista si capisce come il tema della crescita economica abbia giustamente guadagnato attenzione e sia diventato uno dei principali temi di discussione per ridurre il peso fiscale. Allo stesso tempo penso che sarebbe interessante introdurre altri elementi nella discussione e nella valutazione dello stato di salute di un Paese, ad esempio debito del settore privato e il livello di risparmio delle famiglie.
3) L’euro è in grado di sopravvivere alla crisi?
Decisamente sì, come peraltro dimostrato dal recente andamento dei mercati finanziari. Basti pensare che al picco della crisi l’euro-dollaro era scambiato sopra 1,25. In quale altri occasioni si è vista la valuta di una nazione al centro di una crisi finanziaria scambiata sopra la parità con il dollaro? Nel corso dell’ultimo anno si è vista una chiara separazione tra il tasso di cambio dell’area euro e i mercati azionari nazionali che hanno subito molto più le conseguenza della crisi di fiducia sull’Europa e il conseguente flight-to quality. Dobbiamo ricordarci che dopo il dollaro, l’euro rimane la seconda valuta in termini di transazioni internazionali e che un investitore internazionale che voglia allocare il proprio portafoglio tra diverse valute non può al momento prescindere dall’euro.
Nel momento in cui anche il premier greco Papademos esclude il default per Atene, concordo sul fatto che l’euro può considerarsi fuori da una fase critica. E mi unisco alla provocazione intellettuale proposta da Marco Lira: una valuta che ha sempre mostrato indiscutibile “forza” relativa nei confronti del dollaro poteva essere ragionevolmente considerata a rischio-disintegrazione. È vero invece che la fiducia degli investitori internazionali – resistente ai “fly-to-quality” – ha sostenuto le quotazioni dell’euro in misura probabilmente eccessiva rispetto alle esigenze di competitività dell’export europeo. Alcune aperte offerte di “soccorso” da parte della Cina ai debiti pubblici europei – a fianco di un attivismo crescente sul fronte delle acquisizioni societarie – sono rivelatrici di una realtà forse più complessa ancora: l’euro – insidiato al ribasso dalle incerte finanze pubbliche dei paesi membri – è strattonato al rialzo dai bracci valutari delle potenti economie “emerse”.
4) Nell’anno delle elezioni presidenziali, negli Usa sembra destinato a continuare il duello di politica economica sulle due sponde dell’Atlantico, condensabile nella contrapposizione tra l’esigenza di “stimolo” viva negli Stati Uniti (“Quantitative Easing” della Fed) e “rigore” tenuto ferma dall’Europa germanocentrica.
La distinzione tra QE e “non QE” è per certi versi semantica. Anche la Bce ha adottato misure non convenzionali di politica monetaria e sembra essere soddisfatta dei risultati ottenuti con le misure introdotte lo scorso dicembre per mitigare le tensioni presenti sui mercati e prevenire un liquidity crunch del sistema bancario. Rispetto al QE della Fed, le misure della Bce sembrano pù dettate dall’esigenza di rimuovere pressioni di finanziamento del sistema bancario che dalla volontà di iniettare liquidità nel sistema attraverso un meccanismo di riallocazione di portafoglio del settore privato. Allo stesso tempo va riconosciuto il fatto che il sistema bancario europeo è stato inondato di liquidità e pertanto l’attenzione dovrebbe essere su cosa le banche fanno con questo eccesso di liquidità. In sintesi, direi che la maggiore differenza è stata più nell’efficacia della comunicazione delle misure adottate che nella sostanza. Da questo punto di vista la presenza di Mario Draghi alla guida della Bce e la sua sensibilità e attenzione alle esigenze e aspettative dei mercati rappresentano un grosso passo in avanti.
La prima scadenza elettorale dell’anno sarà in Francia per le presidenziali. In Spagna il governo è appena cambiato dopo il voto, in Italia e Germania – su fondali diversi – la politica sta scaldando i motori di lunghe campagne elettorali. Anche a Pechino, pur senza consultazioni, Hu Jintao e Wen Jiabao ai avviano a essere avvicendati da Xi Jinping e Li Keqiang. Concordo sull’analisi di mercato di Marco Lira riguardante le dinamiche della liquidità sui mercati, fra convalescenza bancaria e stimoli alla ripresa del ciclo. Un interrogativo di periodo meno breve riguarda ancora una volta i rapporti tra mercati finanziari e istituzioni politiche nel momento in cui in paesi-chiave si ri-consolidassero leadership pubbliche forti. Non è detto che governi più stabili e credibili sposino politiche monetarie meno espansive, ma è probabile che – sotto la spinta di elettorati fortemente critici dell’operato di banche e mercati – poteri pubblici elettivi o indipendenti sarebbero meno condiscendenti nei confronti dei sistemi finanziari di quanto sia stata – un caso per tutti – l’Amministrazione Obama.