Annunciato in pompa magna, l’accordo dato alla luce in sede europea rischia di essere il tipico topolino partorito dalla montagna. Il Fiscal Compact approvato da 25 Paesi membri (si sono sfilati Regno Unito e Repubblica Ceca) dovrebbe garantire la solidità dei bilanci nazionali. Prevede l’impegno a inserire la regola aurea del pareggio del bilancio nelle singole costituzioni e l’obbligo di ridurre di un ventesimo all’anno la parte di debito pubblico eccedente il 60% del Pil. Su questo punto, abbiamo rischiato grosso. Il nostro rapporto debito/Pil è, infatti, al 120%; Monti è riuscito a spuntarla e ottenere che siano previste delle attenuanti per i Paesi con debiti così elevati, quali l’andamento generale dell’economia e il risparmio di imprese e famiglie.



«Il trattato serve, per lo più, alla Merkel per mostrare ai propri elettori che è in grado di imporre in Europa alla sua volontà. Di per sé, tuttavia, difficilmente riuscirà a rappresentare una soluzione alla situazione attuale», afferma, raggiunto da ilSussidiario.net Emilio Colombo, professore di Economia internazionale all’Università Bicocca di Milano. «Del resto – continua – un trattato, già l’avevamo: era il patto di stabilità». Mancano, secondo il professore, le condizioni perché il nuovo trattato possa avere efficacia: «Il problema consiste nell’assenza di leader nazionali realmente europeisti; non mi riferisco certo all’Italia, che sta dimostrando di agire secondo una chiara visione europea. Ma per il resto è evidente che l’Europa muove i propri passi con estrema timidezza, tanto da non essere riuscita, negli ultimi mesi, a varare una sola mossa efficace contro la crisi».



Non tutto è perduto. «Il fiscal compact non risolve la crisi, ma rappresenta un gran passo in avanti». Tanto più che è stato approvato con un occhio di riguardo alla nostre richieste: «Non era possibile, del resto, fare altrimenti», dice Colombo. «Mi spiego meglio: questo accordo tenta di porre un vincolo alle politiche fiscali. Che, per essere valutate, necessitano di due indicatori: il deficit e il debito. Il primo è una misura di flusso, il secondo una misura di stock. Ovvero: il debito è prevalentemente la conseguenza di errori derivanti della politica economica del passato, piuttosto che di quella attuale, mentre il deficit è un indicatore molto più puntuale di quello che accade alle finanze italiane».



Molti paesi, in Europa, vedono tra i due indicatori un divario enorme. Noi siamo tra questi. «Abbiamo adottato una serie di misure imponenti che ci porteranno in una condizione di assoluto privilegio rispetto al rapporto deficit/Pil; al punto che, se tutto andrà bene, arriveremo al pareggio di bilancio nel 2013, cosa che non riuscirà a ottenere neanche la Germania. Siamo, tuttavia, penalizzati dal un debito estremamente elevato. Se avessimo dovuto adottare dalle regole imposte dalla Germania, avremmo dovuto implementare lo sforzo che già stiamo facendo in maniera non più realisticamente sostenibile». Secondo Colombo, tenderemo comunque, prima o poi, a un rapporto debito/Pil al 60%. 

«Ma non possiamo farlo in due anni. Quindi, nei Paesi più indebitati si valuterà anche l’aspetto tendenziale, la traiettoria di convergenza verso il 60%. Come già, del resto, prevedeva il primo patto di stabilità». C’è un’altra ragione per la quale si è deciso di adottare una tale clausola di salvataggio: «La solvibilità di un Paese non si valuta, di certo, prendendo in esame unicamente il comportamento dello Stato, ma anche considerando quello dei privati. Se lo Stato, infatti, risultasse insolvente, dovrebbe farsene carico il privato. Che non potrebbe farlo se fosse a sua volta indebitato». Per inciso, la nostra situazione, tutto sommato, è decisamente superiore a quella di paesi considerati tradizionalmente economicamente più forti del nostro: «Il rapporto debito/Pil del Regno Unito, ad esempio, è all’80%, ma fino a due anni e mezzo fa era al 40; ha un deficit che è cinque volte il nostro; è molto più indebitato, dal punto di vista privato, di noi; e ha un sistema bancario estremamente più a rischio ed esposto a titoli tossici e, per le sue dimensioni, in grado di fare molti più danni del nostro».

 

(Paolo Nessi