Quando a febbraio 2006 Ben Bernanke è nominato presidente della Federal Reserve, pochi immaginano i guai che lo attendono da lì a pochi mesi. Tra questi c’è il fondo d’investimento americano Paulson Investment e il loro ragionamento, oggi, appare quasi ovvio. Mettiamo in ordine (col senno di poi…) un paio di avvenimenti.
Dal 2005 i gestori finanziari sono costretti a investire in strumenti complessi per non tradire le aspettative di investitori sempre più esigenti. I ritorni sui mercati si aggirano intorno al 15-20% annuo (dati Eurekahedge) e per mantenere il conto economico su questi ritmi occorre assumere rischi che appaiono sempre più come veri e propri azzardi. Alla frenesia finanziaria si aggiunga che per l’Amministrazione Bush la proprietà della prima casa è uno dei pilastri del mandato: a giugno 2002 la Casa Bianca svela un piano per aumentare di 5,5 milioni i proprietari di prima abitazione entro il 2010. Le agenzie pubbliche per il credito agevolato mettono sul piatto centinaia di miliardi di dollari (440 arrivano dalla sola Fannie Mae) e sono in buona compagnia. Dal 2002, infatti, anche gli operatori privati possono investire nei mutui immobiliari ad alto rischio (e alta redditività). E così finanza e politica si incontrano in un terreno molto accidentato, l’immobiliare a stelle e strisce.
Dal 2003 al 2007 i mutui immobiliari ai clienti in difficoltà finanziaria (i cosiddetti mutui subprime) passano da 440 a 1300 miliardi di dollari, innescando un cortocircuito del debito su cui, come abbiamo visto nella prima puntata, le riserve monetarie cinesi sono investite a piene mani. Poi il vento cambia: per più di un anno e mezzo la Fed rivede i tassi al rialzo, passando dall’ 1,5% dell’agosto 2004 al 4,5% del gennaio 2006. I subprime a tasso variabile cominciano a pesare sui conti delle famiglie meno abbienti e di chi le finanzia. Bernanke non indulge e anzi porta il costo del denaro al 5,25% in pochi mesi (siamo a giugno 2006).
Tra le scrivanie di Paulson Investment deve essere suonato un campanellino: la situazione è ormai insostenibile, sul debito pubblico come nel privato. E se questo Bernanke avesse accettato la sfida di un cambiamento? Cambiamento è quasi un eufemismo: per rimettere ordine nel sistema economico statunitense si dovrà attraversare quella che da subito appare come la più grande crisi di tutti i tempi.
A inizio 2007 Paulson Investment dà mandato a Goldman Sachs per trovare gestori di fondi interessati a un investimento indicizzato all’immobiliare americano. Goldman tiene il banco e detta le regole del gioco: se il prezzo del mattone sale, i fondi vincono e Paulson paga, viceversa vince Paulson e a pagare saranno i gestori (Goldman, con le commissioni sull’operazione, vince a prescindere dal risultato).
Nel primo trimestre 2007 l’indice S&P/Case-Shiller (indice che segue il prezzo delle case negli Stati Uniti) chiude in negativo per la prima volta dal 1991. A fine 2007 i fondi pagheranno a Paulson Investment la bellezza di 5 miliardi di dollari. Fuori dagli uffici di Paulson, però, non sono in molti a festeggiare. Dal 2007 a oggi, secondo dati Bloomberg, le perdite legate alla crisi ammontano a oltre 2000 miliardi di dollari e sono in larga parte registrate negli Usa.
Le conseguenze non tardano ad arrivare. Nei diciotto mesi che seguono la nomina di Bernanke il dollaro perde quasi il 25% sull’euro, riducendo quindi di un quarto il valore delle riserve monetarie cinesi. Pechino decide per un cambiamento di strategia: dal debito il dragone passa a investire pesantemente sul mercato azionario. E, soprattutto, comincia a mostrare un certo interesse per valute alternative, in primis euro e sterlina. Nel 2007 il governo di Pechino crea un fondo per gestire attivamente le proprie riserve valutarie. Già a maggio dello stesso anno, China Investment Corporation (Cic) investe tre miliardi di dollari nel fondo Blackstone (un nome che ritornerà in questa storia) per poi puntare con decisione verso le materie prime: AngloGold Ashanti, Kinross Gold, la canadese Teck Resources e la brasiliana Vale, entrambe attive nel settore minerario, e ancora Andarko Petroleum, Valero Energy e Chesapeake Energy. A fine campagna, nel 2009, Cic avrà un portafoglio azionario di quasi 10 miliardi di dollari solo negli Usa, ai quali si devono aggiungere esposizioni (non pubblicate) in Europa e Regno Unito.
Dalle parti di Bruxelles la crisi a cavallo tra 2007 e 2008 è un colpo di fortuna inatteso: le perdite finanziare in Europa si limitano a “solo” 700 miliardi di euro, a fronte dei quali gli istituti di credito Ue riescono a raccogliere capitali freschi per importi simili (619 miliardi di euro secondo Bloomberg). Tra i più grandi sottoscrittori ci sono stati nazionali e fondi sovrani, mentre tra gli emittenti figurano i principali nomi della finanza europea: Royal Bank of Scotland, Hsbc, Barclays, Santander, Ubs, Unicredit e Bnp Paribas.
La tenuta del sistema finanziario spinge la Bce alla rottura con la Fed. Quando nel 2007 Bernanke lima il costo del denaro, l’Eurotower mantiene i tassi invariati. Mentre la scelta americana è giustificata da scenari finanziari catastrofici, la linea del rigore dettata a Francoforte è ufficialmente dovuta a rischi inflazionistici. Sotto sotto, cova un’ambizione mai così concreta. In teoria l’euro può davvero diventare la prima moneta globale; di fatto, Bce e Fed cessano di gestire la crisi in sincronia.
Questo atto di hybris costerà caro all’Europa ma prima di raccontare quanto, la prossima puntata vedrà gli Stati Uniti alle prese con la caduta dei giganti. Due nomi su tutti: Aig e Lehman Brothers.
(3 – continua)