Nell’ultima settimana del 2011, ci informa il Financial Times, i contratti “short” sull’euro hanno toccato il massimo di sempre. Gli hedge fund della City hanno così scommesso sulla discesa della moneta unica a vantaggio del dollaro, ma anche della sterlina. Una mossa che, dal punto di vista dei fondamentali macro, a prima vista non si spiega granché. Per quale motivo un gestore preferisce comprare un Gilt della Regina che gli renderà il 2% nei prossimi dieci anni a fronte di un’inflazione già oggi più elevata? La scommessa ha un senso solo se si prevede una forte caduta della moneta unica. O, peggio, il suo collasso nel breve termine. È questa la vera ragione del brusco ribasso delle Borse europee, Piazza Affari in testa, che è coinciso non a caso con il ritorno alla piena attività dopo la pausa festiva dei broker di Wall Street e della City.  



L’attacco ai titoli bancari in Piazza Affari rappresenta, come è già avvenuto in precedenza,  il modo più efficace per ottenere a basso prezzo un effetto domino che si trasmette sull’intera curva del debito italiano, andando a intaccare la fortezza che, a suon di sacrifici, il governo Monti ha costruito grazie alle picconate al tenore di vita delle famiglie italiane. A contribuire alla tempesta perfetta, poi, c’è la solita logica suicida: la Germania fa sapere che non ci saranno sconti, nonostante i sacrifici italiani e spagnoli. Prima il pareggio di bilancio, poi si partirà, forse, con una dotazione più adeguata del fondo salva-Stati.



Visto con gli occhi della City, il quadro è fin troppo chiaro: a Berlino, dove la congiuntura procede a gonfie vele, né la signora Merkel, né l’opposizione intendono mettere a repentaglio le proprie fortune elettorali con scelte che l’opinione pubblica potrebbe non capire. E sale, sotto la vernice delle dichiarazioni ufficiali, la tentazione di considerare chiusa l’esperienza della moneta comune, almeno nelle forme attuali. A fine marzo la Grecia potrebbe essere costretta a lasciare l’euro, altri paesi minori potrebbero essere accompagnati fuori dalla Comunità. Fantapolitica? A pensar male, dopo tante delusioni, si rischia per davvero di non far peccato.  



In questa cornice non era difficile attendersi una pessima partenza dell’aumento di capitale Unicredit. Ma la previsione è un risultato comunque sbagliato per difetto: la frana, un buon 25% di ribasso in due sedute al solo annuncio del prezzo (stracciato) delle nuove azioni, sembra una follia. O comunque un interesse. Ma dietro la follia, in finanza, spesso c’è del metodo. 

1) La banca di Piazza Cordusio, innanzitutto, è la prima a presentarsi sul mercato in un 2012 ad altissima tensione in cui le grandi banche dell’eurozona dovranno dotarsi di capitali richiesti dall’Eba, l’autorità bancaria europea, per far fronte alla frana dei prezzi dei titoli di Stato in portafoglio,  Btp in testa; Unicredit, insomma, funge da cavia. Senza poter disporre, per ora,  di una qualsiasi rete protettiva.

2) Lo sconto, pur obbligato, dei nuovi titoli emessi, il 43% sul valore teorico basato sui prezzi di fine anno (già sotto del 25% rispetto a due mesi prima) non è sufficiente a invogliare all’acquisto gli eventuali compratori. A complicare il quadro arrivano, come sempre accade in questi casi, notizie negative che alimentano la sindrome dell’Orso. Dalla Spagna filtra la notizia che gli istituti iberici dovranno svalutare il patrimonio immobiliare di altri 50 miliardi di euro (il 4% del Pil spagnolo). Il che lascia pensare che Banco de Santander e Bbva dovranno presto imitare l’operazione di  Unicredit. Intanto il flop dell’asta ungherese sui titoli di Stato viene interpretata come un rischio collasso di Budapest e, a cascata, di una bella fetta delle economie dell’Europa Orientale, l’area in cui sono più concentrati gli interessi di Unicredit e di Banca Intesa.

3) Non aiuta l’atteggiamento delle autorità europee. La richiesta di aumento di capitale da parte dell’Eba ha l’effetto pro ciclico di colpire le banche nel momento in cui sono più vulnerabili. È vero che, nel frattempo, la Bce ha aperto i rubinetti, garantendo agli istituti la liquidità necessaria per far fronte alle scadenze delle obbligazioni o alla sottoscrizione dei titoli di Stato (165 miliardi tra febbraio e aprile per l’area euro). Ma in una congiuntura quale l’attuale nessun tesoriere si azzarda a investire in equity a medio termine.

4) A tutto ciò vanno aggiunte considerazioni più  “domestiche”. Il sistema bancario italiano, pur più prudente di altri nel momento della prima ondata di crisi, è oggi investito dalla pessima congiuntura dell’economia italiana che si combina con un assetto inadeguato per fronteggiare l’emergenza internazionale. L’assenza di grandi investitori istituzionali si fa sentire in maniera acuta, mentre le fondazioni stentano ormai a mantenere il controllo sugli istituti. Ma la questione non è solo finanziaria, bensì di governance.

5) Il sistema bancario italiano sconta abitudini vecchie. A partire da una selezione del management più attenta agli equilibri politici e alle clientele degli azionisti di riferimento che non alle esigenze della clientela industriale, del mercato delle famiglie o tanto meno della concorrenza. Il risultato è l’immobilismo che, ad esempio, ha frenato Unicredit nel corso degli ultimi anni. Alessandro Profumo (congedato con una super liquidazione che grida vendetta al cielo) non ha saputo interpretare la nuova realtà economica ed è finito travolto dalla sua stessa politica di espansione a ogni costo. Ma cosa è stato fatto dopo la defenestrazione di Alessandro fu il Grande? Per ora solo il salvataggio della Roma calcio, annesso il finanziamento a vantaggio dei nuovi proprietari, mentre il rischio industriale resta a carico della banca. A livello di management, l’assunzione del presidente dimissionario della Lega Calcio per gestire i “rapporti istituzionali” con  gli ambienti che contano della capitale. Infine, il capolavoro: l’aumento di capitale in soccorso della famiglia Ligresti in cui Unicredit ha bruciato 140 dei 160 milioni investiti nel giro di pochi mesi.

Queste considerazioni “domestiche” assai importanti in tempi normali, vengono oggi oscurate dall’emergenza internazionale. Ma il male oscuro della Borsa italiana, la sindrome che condiziona la navicella Italia così esposta alle intemperie, affonda le sue radici nella difficoltà a rispondere con la necessaria flessibilità e il necessario coraggio a una situazione economica in cui non valgono più equilibri consolidati da tempo. Oggi hanno un futuro solo le aziende che sono in grado di competere e di guadagnare, senza attendersi aiuti dallo Stato o gravando sulle spalle di un tessuto economico, aziende e famiglie, fortemente impoverito.

Un’amara novità destinata a valere anche in banca. Se ne accorgeranno i dipendenti di Bpm, così come quelli di Mps. Così come se ne sono accorti i dipendenti Fiat. Le previsioni parlano di un 2012 molto difficile. Probabilmente sbagliano, per difetto. Anche se, data la violenza della crisi, non è affatto escluso che la Borsa, solita ad anticipare i trend, possa ripartire già dopo le Idi di mazo, quando le aste di Btp più impegnative dell’anno forniranno indicazioni certe sulle prospettive dell’Italia. L’importate è restare vivi e vegeti (sul piani economico, ben s’intende) fino ad allora. Senza  farsi impressionare dalle tempeste che verranno.

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