La priorità del governo Monti, adesso, è quella di far ripartire l’economia. L’Antitrust, l’Autorità garante per la concorrenza del mercato, gli ha suggerito come: proponendo un pacchetto di liberalizzazioni da attuare al più presto. Tra i settori cui metter mano vi sono le Poste, le farmacie, i tassisti, il trasporto ferroviario, le professioni, la rete gas e i servizi pubblici locali. Su quest’ultimo punto, sorge un problema: della categoria, infatti, fa parte anche la gestione dei servizi idrici locali. Tuttavia, due dei quattro quesiti referendari di quest’estate vertevano proprio sulla materia (gli altri erano su nucleare e legittimo impedimento); e, con la vittoria dei “Sì”, venne sancita l’impossibilità di liberalizzare il settore. E adesso? «Quel referendum è stato vinto, sostanzialmente, attraverso una frode perpetrata ai danni degli elettori perché si è descritto un fenomeno che non esisteva, ovvero la privatizzazione dell’acqua», spiega, raggiunto da ilSussidiario.net Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni. In effetti, in realtà, si stava «semplicemente discutendo – continua – della possibilità di mettere a gara la gestione del servizio pubblico locale; secondo modalità, inoltre, il più lontane possibili dalla privatizzazione. Il decreto Ronchi prevedeva di bandire una gara per l’affidamento dei servizi o che quelli già affidati scendessero al di sotto di una certa quota di partecipazione pubblica».



Secondo Mingardi, l’esito di quel referendum pone dei problemi anche al di là della gestione dei servizi idrici. «Ha messo nei guai non soltanto gli operatori genuinamente privati ma anche le imprese municipalizzate che sono controllate dal pubblico ma con una quota di capitale raccolto sul mercato». In sostanza: «l’esito del referendum è incompatibile con una gestione ragionevole dei servizi pubblici. Dato che è frutto di una frode politica, è sensato pensare di rivederlo». Resta da capire se, effettivamente, sia possibile ignorarne il risultato. «Se in Italia non fosse possibile ignorare i risultati dei referendum – replica – avremmo avuto gli ultimi dieci anni di vita pubblica italiana con una Rai privatizzata, senza un ministero dell’Agricoltura, e con una legge elettorale maggioritaria». Rimane, in ogni caso, la questione della praticabilità politica. «Il referendum è stato vinto dagli attori che lo hanno promosso perché, dopo la vittoria di Pisapia a Milano e di De Magistris a Napoli, è montata un’onda che ha visto anche nel referendum la possibilità di dare un forte segnale politico contro l’allora governo Berlusconi e, segnatamente, contro il presidente del Consiglio». Oggi, le condizioni sono radicalmente cambiate: «nessuno, tra i partiti politici, ha una visione della gestione dei servizi pubblici locali socialista – è questo il termine più corretto – come quella dei promotori del referendum». Ciò non significa che l’esecutivo avrà la strada spianata. 



«Temo, in ogni caso, che avrà forti difficoltà a recepire le segnalazioni dell’antitrust, date le storiche resistenze alla liberalizzazioni. Inoltre, questo è un governo di grande coalizione, condizionato dalla difficoltà di costruire un ampio consenso in Parlamento. Ogni partito, infatti, ha le proprie categorie e i propri gruppi di interesse di riferimento e, più ci si avvicina alle elezioni, più ciascuna formazione tenterà di proteggere i suoi». Sta di fatto che siamo in una fase particolarmente anomala, e occorrerà fare di necessità virtù. «Non siamo più in condizioni normali. L’Italia sta correndo enormi rischi. Il governo Monti dovrà riuscire a dare una risposta sensata ai mercati e al resto del mondo, che ci chiede di dare una prospettiva al Paese. Del resto, la pressione fiscale ha raggiunto i suoi massimi storici. E, sul fatto che questo determinerà un effetto depressivo, tutti gli economisti concordano». In conclusione: «Per controbilanciare l’effetto di compressione della crescita occorre necessariamente metter in campo le liberalizzazioni. Se non ora, quando?»

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