Più volte su queste pagine ho sostenuto che se si tagliassero 100 miliardi di spesa e tasse l’economia italiana invertirebbe velocemente la tendenza al declino, in particolare la deindustrializzazione, e che – aggiungendo misure di liberalizzazione e deburocratizzazione – perfino volerebbe. Ho ricevuto reazioni entusiastiche dal popolo che vive di mercato, sia dipendenti, sia imprenditori, commercianti e professionisti, molte espresse con le stesse parole usate dal presidente di Confindustria, Squinzi, sabato scorso: “Moriamo di tasse”. Ma ho anche ricevuto insulti da parte del popolo che vive di denaro pubblico: un taglio del genere significa macelleria sociale, ecc.
Ritengo sia un buon momento per chiarire che, se fosse attuato, il taglio di spesa indicato non implicherebbe alcuna riduzione dei servizi pubblici essenziali, né delle garanzie per chi è in situazione di bisogno. Proprio la formula proposta da Squinzi permette tale chiarimento. Lo Stato, semplificando, eroga ogni anno circa 30 miliardi alle imprese in forma di incentivi e aiuti. Di questi solo 3 miliardi vanno alle imprese private, il resto finanzia una miriade di società pubbliche, nazionali e locali. Squinzi, correttamente, propone di tagliare tali trasferimenti, di risparmiare così 30 miliardi di spesa, e di ridurre per tutte le aziende le tasse di altrettanto.
Questo serve a dire che molta spesa pubblica in Italia non serve a finanziare lo Stato sociale, ma carrozzoni inutili o inefficienti gestiti, in sostanza, dai partiti. Certo, l’autobus che serve un Comune di montagna con pochi abitanti opera in perdita, ma non si può lasciare quella comunità senza servizi ed è giusto che il denaro fiscale se ne faccia carico. Ma casi come questi costano, per dire, 1 miliardo e non 30. Le aziende pubbliche che ricevono sussidi pubblici riducono i costi per i cittadini? Per niente, per esempio le bollette elettriche sempre in aumento delle municipalizzate.
Pertanto, se si tagliano 29 miliardi di trasferimenti alle imprese e si riducono di altrettanto le tasse non cambia niente sul piano della socialità dello Stato. Cambia molto, invece, per il magna magna del politicume che affolla le aziende pubbliche: queste sarebbero costrette a maggiore efficienza, tagliando i costi inutili interni che ora vengono finanziati con denaro fiscale. Il punto: il resto dei 71 miliardi, oltre ai 29 circa detti, ha caratteristiche simili e può essere tagliato senza intaccare garanzie essenziali, permettendo così di ridurre le tasse di quasi 7 punti di Pil: la vita.
Ho ricevuto anche parecchi pareri e suggerimenti da colleghi che invitavano a calcolare: (a) l’impatto deflazionistico, cioè recessivo, di un taglio così forte della spesa pubblica; (b) il come inserire il taglio di 100 miliardi nello scenario di pareggio di bilancio obbligatorio entro il 2013 e di riduzione del debito per un ventesimo all’anno imposto dal trattato “Fiscal Compact”.
Il mio gruppo di ricerca stima che se al taglio della spesa – in tre anni – corrisponde un immediato taglio delle tasse l’impatto deflazionistico sarebbe minimo e breve (sei mesi) alla condizione di una certa ripresa della domanda globale e del mercato europeo. Il taglio di spesa e tasse come detto non pregiudica il pareggio di bilancio, anzi ne migliora le prospettive in base al calcolo di “pareggio strutturale” e non “contabile”. Il gettito aumenterebbe grazie a più crescita e ciò sia manterrebbe solido l’avanzo primario di bilancio che serve a ripagare il debito, sia alzerebbe il denominatore del rapporto debito/Pil rendendo il vincolo più sostenibile.
In conclusione, un taglio di spesa e tasse di 100 miliardi appare fattibilissimo. Bisogna “solo” superare la resistenza di circa 800.000 persone che vivono di mestieri politici improduttivi.