L’affollarsi notizie di cronaca di ogni tipo ha rischiato di far passare in secondo piano per i non addetti ai lavori la notizia che il decreto stabilità varato dal Governo prevedeva lo stanziamento di 300 milioni di euro per far fronte agli oneri derivanti dalla mancata realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina.



La novità, per la sola Impregilo, tra il riconoscimento dei costi sostenuti fino ad adesso, come quelli di progettazione e gli utili non conseguiti, poteva comportare – hanno scritto gli analisti di Intermonte – fino a 150 milioni per il pagamento di penali da parte dello Stato. Ma la fattura per il Ponte che non si fa, tra spese sostenute e penali, rischierebbe così di sfiorare il miliardo di euro. Tra quattrocento e cinquecento già spesi dal 1981 e altrettanti di penale.



Ma, alla fine, è arrivata la buon novella: il governo ha fatto dietrofront. Il decreto stabilità, nell’ultima versione, non comprende la norma, presente invece nella bozza, che stanziava 300 milioni di euro per il pagamento della penale relativa alla mancata realizzazione del Ponte sullo Stretto Messina. Il viceministro delle Infrastrutture, Mario Ciaccia, ha detto che il tema sarà affrontato nel prossimo Consiglio dei Ministri. Speriamo che Mario Monti tenga stretti i cordoni della borsa: non è giusto che siano i contribuenti a pagare per l’ennesima commedia all’italiana.

La questione, a prima vista, non c’entra per nulla con i grandi temi macroeconomici di cui si discute in questi giorni a Tokyo, nell’ambito dell’assemblea del Fondo monetario internazionale. Ma se le poche cartucce di cui dispone il ministro Corrado Passera per tentare la “mission impossible” di limitare la frenata del Pil nel 2013 a zero (contro il -0,7% previsto dal Fmi) finiscono per onorare contratti improvvidi e faraonici o pagare a piè di lista i guasti della sanità di alcune regioni, la partita si chiude in partenza, senza farsi alcuna illusione.



In altri termini, le strategie dell’Italia, quando ormai è partita nel mondo l’onda anomala della recessione bis, vanno sottoposte a un monitoraggio feroce e spietato, vuoi sul piano quantitativo che su quello qualitativo. Sul primo versante, inutile illudersi, l’autonomia del governo italiano (e non solo) è estremamente modesta. Ma sul fronte dell’equità, che in tempi di crisi vuol dire innanzitutto condivisione dei sacrifici, il ruolo della politica (e dei tecnici, soprattutto quelli che studiano da politici) è determinante.

Ne è consapevole lo stesso Mario Monti, che ha voluto lanciare il segnale della riduzione dell’Irpef che comunque non compenserà le fasce deboli degli effetti dell’aumento di un punto dell’Iva. Ne è consapevole l’intero arco politico dal centro alla sinistra, che ha applaudito alla decisione italiana di aderire al varo della Tobin tax: il provvedimento, pur già conteggiato nella contabilità del prossimo esercizio, è di difficile valutazione. Si parla di un miliardo, frutto di una modesta imposizione sullo scambio di azioni e di derivati. Assai più facile che gli operatori concentrino gli scambi sui mercati, da Londra ad Amsterdam, esenti dall’imposta.

Si vedrà nel tempo se i benefici supereranno il rischio di frammentare quel che resta dell’Europa. Basti il paradosso di Euronext, la società che comprende oltre all’americano Nyse la Borsa parigina e quella di Amsterdam, ovvero un mercato dove si applica la Tobin tax assieme a Borse che non l’adotteranno probabilmente mai.

Ci vorranno ben altri segnali di coesione per evitare che la crisi non sfoci in gravi tensioni sociali. Impressiona scoprire che, tra le cause dell’outlook negativo di Standard & Poor’s sulla Spagna, primeggi il rischio di un tracollo della convivenza sociale, ancor prima che politica: dal saccheggio legalizzato dei supermarket alla disobbedienza civile di fronte alle bollette dei servizi. È la stessa preoccupazione che emerge dall’outlook del Fmi, che dedica non a caso alcune pagine a quel che accadde nel Regno Unito tra le due guerre, quando Londra decise di affrontare il debito pubblico accumulato in guerra con il taglio delle prestazioni, la moderazione salariale e il conseguimento di un feroce attivo di bilancio, nell’ordine del 7%. Una terapia, insomma, assai simile a quella che la Bundesbank sta imponendo a Paesi come Portogallo, Spagna, Grecia e, naturalmente, la stessa Italia.

Il risultato? Il debito pubblico di Londra salì al 170% sul Pil nel 1933 per poi schizzare al 190% nel 1938. Colpa, si potrebbe obiettare, della crisi del ‘29. Ma, replicano gli studiosi del Fondo, l’economia inglese già nel 1928 era in condizioni peggiori di dieci anni prima. Al contrario, dopo la Seconda guerra mondiale, gli Usa sfuggirono alla trappola inglese della deflazione, grazie alla lezione di John Maynard Keynes: gli acquisti di bond da parte della Federal Reserve tennero alti i tassi, tutto vantaggio dell’inflazione.

Quale morale trarre dalla doppia lezione? Una severa terapia di “fiscal policy” (austerità e pulizia della spesa pubblica) è necessaria più che auspicabile. Ma gli sforzi rischiano di andare a vuoto se non vengono accompagnati da un’azione parallela di stimolo alla domanda. L’esatto opposto di quello che, a causa della paura sulla sorte dell’euro, è successo nell’ultimo anno, quando più di 250 miliardi di depositi sono emigrati dalle banche italiane (e più di 270 da quelle spagnole). Bisogna richiamare i partner alle responsabilità che impone una politica che deve, piaccia o non piaccia, essere comune: il collasso delle istituzioni a Madrid o ad Atene si farà sentire anche a Berlino e perfino ad Helsinki.

Da parte nostra, però, basta sprechi o fantasie, tipo quel Ponte sullo Stretto che i siciliani (salvo quelli delle cosche) giudicano del tutto inutile.