Il fondamentalismo ideologico liberista e deflazionista che crede di far divenire da debitori a creditori i popoli delle nazioni nel bel mezzo della crisi attraverso l’austerità, mentre invece le scaraventa nella disgregazione, oltre a nutrirsi delle aporie neoclassiche matematizzanti ha bisogno – un bisogno disperato – di dimenticare la storia.



Forse per tale ragione questa malattia, l’amnesia, affligge più la sinistra che la destra storica e non solo in Italia. A destra non si è mai fondata una rivista che s’intitola Reset, ossia che vuole tracimare il passato. La destra si fonda sulla tradizione e la renziana rottamazione della storia è impossibile. Non è un caso che i neofiti siano i più fanatici assertori delle idee appena ricevute e bevute, come invece non fanno – come diceva Prezzolini – gli “apoti”, ossia coloro che non la bevono. Il 2012, pensate un po’, è la data del cinquantennio della fondazione dell’Enel, che non a caso i fondamentalisti vorrebbero far passare sotto silenzio, mentre noi “apoti”, invece, vorremmo festeggiare a gran voce. Essa, storicamente, falsifica tutte le idiozie che si dicono dagli alti scranni governativi ed è un salutare momento atto a far riaffiorare i ricordi e con essi la verità.



Ricordiamo e meditiamo. Il fattore fondamentale che caratterizzò la ricostruzione economica italiana e, soprattutto, ne assicurò la continuità, fu la soluzione in forma innovativa del problema dei vincoli derivanti dalla bilancia dei pagamenti per un Paese povero di fonti di energia, che doveva ora affrontare un’impetuosa crescita. Questa strategia fu messa a punto dalle capacità imprenditoriali e ideali del mondo cattolico democratico che, dopo grandi conflitti con il cattolicesimo liberale, riuscì a vincere la battaglia per l’istituzione di un’impresa pubblica del gas metano e del petrolio in Italia. Essa dava vita a un complesso formidabile di imprese ancora oggi produttrici di reddito e di benessere per la nazione: l’Eni.



La creazione dell’Eni è un momento del “nazionalismo economico democratico” che si produce in Italia nel secondo dopoguerra e che unifica i settori più avanzati della grande industria (contro quelli oligopolistici cresciuti grazie all’autarchia fascista) con il cattolicesimo democratico e settori della sinistra socialista e comunista, dando la possibilità a una forte schiera di manager di esprimersi prima e di formarsi poi.

Ernesto Rossi, uno dei padri, in Italia, della fortuna del liberismo economico di matrice anglosassone (scarsa fortuna, ma ricca di intellettuali di prim’ordine), era favorevole all’esclusiva pubblica della ricerca e della coltivazione degli idrocarburi nella Valle Padana. Essa fu concessa all’Eni nel contesto della sua legge istitutiva del 1953. La posizione di Ernesto Rossi, liberista irriducibile, non è paradossale. Si spiega ricordando i compiti di sviluppo che settori ben definiti e innovatori del potere economico e del potere politico intravedevano per il nostro Paese. Ben si comprende il disegno di Ernesto Rossi: l’intervento pubblico doveva configurarsi come un potente mezzo antimonopolistico, uno strumento per garantire la trasformazione e il rinnovamento del mercato energetico. 

Non a caso quel disegno fu lo stesso che sempre Ernesto Rossi, con il Partito socialista e tutte le sinistre comuniste e cattoliche, definì, con Ugo La Malfa, in occasione della nazionalizzazione dell’energia elettrica dell’inizio degli anni Sessanta. Gli intendimenti di La Malfa e di Lombardi erano conformi alle idee di Rossi, degli uomini politici e dei gruppi economici che volevano sbaragliare il cartello oligopolistico e maltusiano degli “elettrici” italiani. La nazionalizzazione garantiva l’industrializzazione a basso costo energetico per il sistema industriale e civile. In Italia, il cartello dominante nel caso dell’energia elettrica era rappresentato dalla Smede, dall’Edison, dalla Sade.

Il fattore fondamentale del miracolo italiano fu il non rispetto delle indicazioni deflazioniste e rigidamente liberiste che nominalmente si davano a livello governativo allorché si dettavano le linee guida della politica economica. Nel farsi concreto della politica governativa, infatti, la cultura liberista fu sostituita via via da una pratica di sostegno all’industria molto corposa e ricca di interventi diretti a concedere il credito a condizioni agevolate, a favorire le esportazioni, a consentire pratiche di controllo dei mercati che garantirono uno sviluppo delle imprese più forti da un lato, mentre consentivano a quelle più deboli e più giovani di accedere alle risorse necessarie per finanziare la crescita e rendere solvibile la domanda.

Tutto ciò creò l’humus culturale favorevole alla nazionalizzazione del 1962 e alla creazione dell’Enel. Per la continuità della crescita occorreva spezzare l’oligopolio idroelettrico che inibiva la diffusione dell’energia elettrica in tutte le aree dell’Italia, in primis quelle più arretrate economicamente e che impediva in questo modo l’abbassamento dei prezzi dell’energia. La nazionalizzazione dell’oligopolio elettrico e la creazione dell’Enel si inserisce in questo contesto: non può essere dimenticato perché parla a noi, persone in carne e ossa, dell’oggi sconvolto da una crisi senza precedenti.

Da quell’esempio possiamo trarre, in primis a livello europeo, indicazioni ancor oggi essenziali per la crescita dell’Italia e dell’Europa, sconfiggendo le ipotesi tragicamente operanti che provocano deflazione, disoccupazione. La sottrazione della sovranità da parte dell’Europa non democratica diviene in tal modo, dimenticando il valore dell’economia mista, un meccanismo di spogliazione delle nazioni creditrici a svantaggio delle nazioni debitrici, depredandone i patrimoni industriali e finanziari.