Matteo, Massimo e i banchieri. Ha suscitato critiche e qualche esplicita ironia sui giornali la giornata milanese di Matteo Renzi. Ieri il sindaco di Firenze, candidato alle primarie del Pd in chiave anti-Bersani, è venuto a incontrare la cosiddetta business community, insomma la città che conta. Ha parlato a una riunione di manager, imprenditori, banchieri, finanzieri; poi un’altra riunione, più riservata, organizzata da Davide Serra, proprietario di Algebris Investments. Serra è un giovane brillante e dinamico, e si è segnalato per aver attaccato più volte l’establishment italiano, quello che ha l’abitudine di controllare le società quotate in Borsa con un pugno di voti ignorando totalmente i diritti del mercato, dei piccoli azionisti (i quali poi, messi tutti insieme, sarebbero la maggioranza). La più famosa campagna di Serra è stata contro le Generali, emblema stesso del capitalismo italiano fatto di salotti buoni e di tanti bei nomi, ma a corto di capitali. Questo signore ha un difetto, indubbio: abita a Londra e ha messo la sede della sua Algebris alle Cayman, noto paradiso fiscale. Questa circostanza non è certo un modello di virtù per chi opera in un Paese che sta facendo ogni sforzo per combattere evasione ed elusione fiscali, e i giornali lo hanno fatto notare: “Strane frequentazioni quelle di Renzi”. Vero. Sarebbe bello tuttavia avere un po’ di memoria. Sempre ieri, in serata, di fronte alla telecamera di Lilli Gruber, c’era Massimo D’Alema, storico leader del Pd che ora Renzi vorrebbe rottamare. La conduttrice ha sollecitato molto l’ex presidente del Consiglio a ricordare alcune sue importanti esperienze del passato. Tra queste, purtroppo, è stata taciuta quella relativa all’attivismo finanziario di D’Alema: da capo del governo, non nascose mai la sua aperta simpatia, il suo appoggio alla cosiddetta “razza padana” di Roberto Colaninno & C. che diede la scalata (con un’operazione ancora oggi discussa) alla Telecom Italia. Tanto che il professor Guido Rossi ironizzò su D’Alema scrivendo che Palazzo Chigi era diventata “l’unica banca d’affari al mondo dove non si parla inglese”.



Ancora banchieri. Ieri l’agenzia di rating Moody’s ha di nuovo declassato il Monte dei Paschi di Siena: da Baa3 a Ba2. Siamo a livello di titolo spazzatura. Una bocciatura dovuta al fatto che non c’è chiarezza sul futuro della banca senese, considerando anche il contesto recessivo dell’economia italiana nel quale la banca opera. Quindi Alessandro Profumo, per anni leader di Unicredit e artefice della sua internazionalizzazione, non è riuscito a convincere i mercati sulla bontà del suo piano di rilancio della banca. Gli unici a essere pienamente convinti di aver fatto la scelta giusta quando gli hanno assegnato il posto di comando, sono gli azionisti. Che nel caso di Mps sono una fondazione controllata dagli enti locali, vale a dire saldamente in mano al Pd, i cui dirigenti si sono dimostrati sempre prodighi di elogi nei confronti del dinamico banchiere, definito anche “arrogance” per via dei suoi modi non sempre cordialissimi. Il presidente del partito, Rosy Bindi, poco dopo la nomina, parlando in un’occasione pubblica ha definito Profumo un grande manager, l’uomo giusto per Mps. Sarebbe stata forse più prudente se qualcuno le avesse fatto presente che Profumo è indagato dalla Procura della Repubblica di Milano per una frode fiscale da 250 milioni di euro relativa ad alcune operazioni ritenute non corrette quando guidava Unicredit.



Cai, che male l’Alitalia. Era scontato, ma ieri è diventato ufficiale: il Tar ha bocciato il ricorso dell’Alitalia contro la decisione che elimina il suo monopolio sulla Milano-Roma. Quindi ora quella tratta, sulla quale per anni la compagnia aerea ha sostanzialmente basato i suoi bilanci, sarà aperta alla concorrenza. Sempre ieri, in piazza del Duomo a Milano, è stata presentata la nuova Frecciarossa 1000, il treno che collegherà Milano e Roma in poco più di due ore, diventando un concorrente quasi insuperabile dell’aereo. Dunque si annunciano guai seri per Andrea Ragnetti, amministratore delegato della compagnia. E si annunciano delusioni per quel gruppo di “patrioti”, come li definì Silvio Berlusconi, che entrarono come azionisti nella Cai di Roberto Colaninno per garantire l’italianità della nostra linea aerea. Quei signori (Benetton, Ligresti, per citarne solo due) fecero il sacrificio non perché credessero nell’avvenire della nuova Alitalia, ma perché speravano che la loro generosità sarebbe stata ricompensata dal governo allora in carica. E qualcuno di loro in effetti qualche contropartita l’ha avuta, per esempio nella politica tariffaria. Ma ora il governo è cambiato. Alitalia è in difficoltà e lo sarà ancora di più senza il monopolio sulla Milano-Roma. In queste condizioni è facile prevedere che i generosi (e speranzosi) patrioti della cordata Cai avranno più dispiaceri che altro.



 

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