Al governo è nuovamente riuscita l’impresa di mettere Pdl e Pd d’accordo. La legge di stabilità non va bene, non piace a nessuno. Rappresenta l’ennesimo ammasso di imposte e balzelli volti a far cassa e colpire sempre i soliti. Per questo, i due partiti maggiori, hanno deciso di presentare una sfilza di emendamenti. Che, anche laddove non dovessero riuscire nell’intento reale, quello di capovolgere il provvedimento, dovrebbero, quantomeno, calmierarne i danni. L’onorevole Luigi Casero, che ha contribuito a individuare le correzioni al testo, ci spiega in cosa consistono le proposte del Pdl.



Cosa non vi va, in particolare, della legge?

Tanto per cominciare, riteniamo la retroattività del taglio delle detrazioni una mossa del tutto iniqua, inaccettabile in uno stato di diritto. A questo, si aggiunge il fatto che l’abbassamento delle aliquote Irpef minime (dal 23% al 22% e dal 27% al 26%) sommato all’aumento dell’Iva (dal 10% all’11% e dal 21% al 22%) dà come risultato un significativo appesantimento fiscale, quantificabile in almeno un miliardo e mezzo di tasse in più. Al di là del fatto che il saldo risulta negativo per le tasche degli italiani, riteniamo che l’aumento dell’Iva sia in sé deprecabile, considerando la particolare situazione economica.



Cosa intende?

Oggi, uno dei problemi fondamentali consiste nella crisi dei consumi interni. Aggravare l’imposta relativa non fa altro che deprimerli ulteriormente. Questo, quindi, è il momento in assoluto più sbagliato per innalzare l’Iva.

Cosa suggerite?

A livello generale, riteniamo indispensabile una riduzione della pressione fiscale. A partire da quella sul lavoro.

In che termini?

In  quelli proposti dal presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che si è detto disponibile a rinunciare a tutti i sussidi destinati alle imprese in cambio di una riduzione del loro carico contributivo. Sarebbe anche un modo per ridurre il peso dello Stato nella vita economica del Paese e per rilanciare un sano modo di fare impresa.



Giavazzi era stato nominato commissario straordinario dal governo proprio al fine di verificare dove fosse possibile tagliare.

Infatti, ma quello studio è rimasto nel cassetto. Complessivamente, pensiamo che persista, anche dentro all’esecutivo, una logica statalista che impedisce di agire in quest’ottica. Anche, e soprattutto, per quanto riguarda la vendita del patrimonio pubblico.

Ci spieghi.

La strada maestra per abbassare le tasse consisterebbe in una vendita dei beni immobili e non dello Stato; comprendiamo bene come il momento non sia propizio e il mercato, attualmente, sia fermo. Tuttavia, è possibile ipotizzare un piano di medio periodo.

In cosa consisterebbe?

Tutti i beni vendibili dello Stato ammontano a 1500 miliardi di euro circa. Noi abbiamo proposto la creazione di un fondo con immissione nell’attivo di circa 400 miliardi di patrimonio pubblico da vendere in 15-20 anni. In questo periodo, contestualmente alla graduale vendita, potremmo valorizzare i beni interessati. Il fondo emetterebbe obbligazioni che, essendo garantire da beni certi, avrebbero un rating estremamente elevato e consentirebbero anch’esse di abbassare le tasse.

In particolare, quali soni i beni che dovrebbero far parte di questo fondo?

Palazzi, caserme, quote nelle municipalizzate, partecipazioni in aziende e via dicendo.

Lei pensa che il governo dovrebbe vendere anche le quote possedute in aziende strategiche quali Eni, Enel o Finmeccanica?

Può tranquillamente farlo. Con la clausola della golden share che gli consenta di  mantenere le prerogative decisionali in merito alla scelte strategiche e agli investimenti di queste aziende.

Quali sono le linee che condividete con il Pd?

L’iniquità delle retroattività delle detrazioni; tuttavia, presenteremo emendamenti diversi. Sulla vendita del patrimonio pubblico, invece, assistiamo a quelle resistenze tipiche di quella mentalità statalista che finora ha impedito l’operazione.

 

(Paolo Nessi)