«Il peggio è passato. Ma il meglio non c’è ancora». Si conclude così l’intervista concessa da François Hollande a sei quotidiani europei (compresa La Stampa) prima del vertice Ue. Di fronte al Bundestag, Angela Merkel ha spiegato ieri mattina quel che il governo tedesco considera sia “il meglio”: «Pensiamo, e lo diciamo a nome dell’intero governo, che potremmo fare un passo in avanti concedendo all’Europa un vero diritto di ingerenza sui budget nazionali al Commissario europeo agli Affari economici». Molti Stati europei sono pronti a opporsi a questo vincolo, giudicato non a torto una limitazione della sovranità nazionale. «Ne sono consapevole – dichiara il Cancelliere tra gli applausi bipartisan del Parlamento di Berlino – ma questo non cambia che ci batteremo per questo». A distanza gli replica il presidente francese: «Il contenuto viene prima del quadro. La sfida istituzionale è spesso evocata per non fare delle scelte. Non mi è sfuggito che i più pronti a parlare di unione politica sono spesso stati i più reticenti a prendere le decisioni che la renderebbero inevitabile». Ogni allusione a Berlino è puramente non casuale.
A prima vista, insomma, la musica non cambia. Il concerto delle 27 anime europee fatica a trovare un ritmo comune. La Germania tiene a far sapere che non ha alcuna intenzione di allargare i cordoni della Borsa (le risorse per una politica di sviluppo andranno trovate con la Tobin tax), la Francia predica la linea dell’“integrazione solidale”: «Ogni volta che facciamo un passo verso la solidarietà – sostiene il presidente – l’unione deve progredire». Intanto, mentre si sviluppa il dibattito, la Grecia viene sconvolta da nuove sommosse sociali. La Spagna prende tempo, nella speranza di trovare una soluzione che permetta di accedere ai prestiti Ue per le sue banche senza aumentare il debito pubblico. Le forze politiche italiane sono concordi nel mandare a Mario Monti questo messaggio: austerità Ok, ma ora basta. Altrimenti in primavera, quando si andrà a votare, solo le forze d’opposizione raccoglieranno il dividendo politico della protesta.
Insomma, a prima vista è la solita “vecchia” Europa. Ma le cose non stanno così. Rispetto al vertice drammatico del 28/29 giugno l’Europa ha saputo trasmettere ai mercati finanziari il messaggio che la sorte dell’euro non è in discussione. In questi mesi Mario Draghi ha saputo conquistare e difendere l’Omt, ovvero il meccanismo in pratica illimitato di intervento a favore degli Stati in difficoltà. Nessuno, comprese le agenzie di rating, mette in discussione che la Bce farà “whatever it takes” (il proclama ormai proverbiale lanciato da Draghi a Londra il 25 luglio) per difendere la moneta unica. Perciò Moody’s ha confermato l’investment grade per la Spagna che pure non segnala, sul fronte dell’economia o delle tensioni sociali, miglioramenti di sorta.
Inoltre, l’Europa ha finalmente messo in moto il meccanismo dell’Esm. Certo, al solito il primo passo di uno strumento europeo si rivela più che mai macchinoso e snervante. Non sarà facile l’accordo sulla supervisione bancaria: la Germania un po’ frena, sotto la pressione delle casse locali dai conti spesso avventurosi, un po’ accelera subordinando all’Unione bancaria l’avvio degli aiuti. Ma la macchina, tra tanti stop and go, comunque è partita.
Il risultato? L’Europa, stavolta, non si è limitata a guadagnare tempo in attesa di un accordo politico, ma si è spinta ben più in là. Non a caso i mercati finanziari hanno riavviato, con una certa energia, il processo di riavvicinamento degli spread. I capitali, fuggiti dalla periferia del Sud Europa, stanno tornando su Btp e listini azionari della periferia. È la premessa fondamentale per ridurre la forbice dei tassi e riavviare un ciclo di investimenti in Italia e Spagna. Tutto bene purché non si dimentichi che, per ora, è un processo solo finanziario. Ovvero basta un click al terminale elettronico per far ripartire la grande fuga nel caso il processo europeo si inceppi di nuovo oppure che qualcuno si illuda che la “festa può ricominciare” dopo l’austerità.
Sarebbe un grande peccato non sfruttare l’occasione. Un anno fa, al meeting del Fmi, l’Italia era l’imputata numero uno per l’incapacità a far fronte agli impegni in materia di austerità. Stavolta, gli strali del Fondo hanno colpito i teorici tedeschi del rigore a ogni costo. Troppa austerità, ha dimostrato il chief economist Olivier Blanchard, fa male. Oggi come ieri: la ricetta del rigore assoluto si rivelò inefficace per abbassare il debito pubblico inglese dopo la Prima guerra mondiale, pur provocando guasti devastanti per lo sviluppo. Al contrario, la strategia americana dopo il secondo conflitto mondiale permise di conciliare crescita e rientro della finanza. Il segreto? Una politica monetaria molto aggressiva, capace di schiacciare in basso i tassi di interesse anche al prezzo di far ripartire l’inflazione, il grande toccasana dei debitori, tra cui primeggiano Usa, Giappone, Italia ma anche altri paesi visto che il rapporto debito/Pil nell’area Ocse è ormai al 110%.
Insomma, accanto alla necessità di insistere nella politica di risanamento dei conti, si profila una strategia per accelerare la soluzione del problema dei problemi: il debito pubblico. Certo, la terapia suona blasfema alle orecchie della Bundesbank, che freme alla sola idea dell’inflazione. Ma la signora Merkel, che medita un taglio delle tasse per dar fiato all’economia e che è alle prese con problemi sul fronte del welfare (vedi pensioni) non meno gravi di quelli italiani non è poi così insensibile a riscoprire la lezione di Keynes.
In sintesi, a Bruxelles in questi giorni si sprecheranno i soliti sorrisi ma anche le consuete punture di spillo e le divisioni anche violente (soprattutto quando si tratta di versar quattrini…). Però, sotto sotto si comincia ad ascoltare una musica armonica, capace di placare i tassi dei Btp e a far rialzare gli “animal spirits” dell’economia.