Venerdì scorso, il ministro delle Finanze della Repubblica federale tedesca, Wolfgang Schäuble, ha ricordato, nel corso di una riunione di un circolo internazionale di riflessione, che è meglio non farsi illusioni: la Germania cresce ancora (pur se a un tasso annuo solamente attorno all’1%), ma, una volta – chissà quando – terminata la recessione, l’Europa in generale, e l’Eurozona in particolare, sono destinate a una lunga fase di crescita lenta, con inevitabili pressioni sul mercato del lavoro. In sintesi, le prospettive per i prossimi dieci-quindici anni sono di aumenti del Pil molto prossimi alla stagnazione.



Abbiamo visto su queste pagine che, nello scenario in cui le riforme verrebbero attuate come programmato, l’Italia potrà contare su una crescita dello 0,33% per i dieci anni dal 2014 al 2024 ; se non si faranno le riforme, o se saranno meno tempestive e meno incisive di quanto ora progettato, la crescita sarà inferiore. Solo tre anni fa, la Banca centrale europea (Bce), la Commissione europea (Ce), e il Fondo monetario internazionale (Fmi) ponevano all’1,3% l’anno il “potenziale di crescita” dell’economia italiana – dato che suscitò ironia tra alcuni giornalisti economici italiani, i quali, non si sa bene con quale strumentazione, contrapposero un solido (e fantastico) 3%.



La situazione italiana non è peggiore di quella di altri paesi dell’Unione europea (Ue). Grecia, Spagna, Portogallo e Malta hanno prospettive più negative delle nostre. La Francia le ha più o meno come le nostre. I “virtuosi” nordici crescerebbero meno dell’1% l’anno, con il risultato di non potere neanche loro assorbire la crescente massa di nuova forza lavoro con poche speranze di avere carriere e redditi analoghi a quelli dei loro padri e nonni. Nei cassetti della Ce si sta rispolverando un programma di alcuni anni fa, quello del “servizio civile europeo”: allora, si pensava a un mero collegamento tra i “servizi” nazionali, adesso a qualcosa come il rooseveltiano “esercito del lavoro”, il cui finanziamento richiederebbe, però, seri emendamenti ai trattati che regolano l’eurozona.



Il problema ha radici profonde: l’Europa ha perso il monopolio del progresso tecnologico proprio quando è iniziato un inarrestabile invecchiamento della popolazione – fenomeno noto a demografi ed economisti e su cui sono stati scritti diecine di volumi (per una sintesi si veda il brillante paper di Francesco Giavazzi The risky game of “chicken” between Eurozone governments and the ECB, pubblicato alcuni anni fa, ma ancora freschissimo), ma a cui gran parte della politica ha prestato poca attenzione. Anzi, spesso ne ha aggravato (e ne sta aggravando) gli effetti.

L’invecchiamento della popolazione porta a un aumento dell’età dell’elettore “mediano”. Nelle società in cui le decisioni sono prese a maggioranza, il risultato della consultazione elettorale tenderà a collocarsi intorno alla posizione mediana nelle preferenze dei diversi individui. Il teorema costituisce uno dei più noti risultati della teoria delle votazioni che studia le procedure di formazione delle scelte collettive e dimostra che il risultato finale della votazione tende a corrispondere alle preferenze dell’elettore per il quale l’alternativa migliore si colloca in una posizione mediana. Quest’ultimo elettore, infatti, è quello che esprime una posizione con cui concorda la maggioranza degli elettori.

Già adesso l’età dell’elettore “mediano” nell’Ue si avvicina ai 50 anni. Il risultato è che per conquistare il voto di coloro che fanno massa si guarda più agli obiettivi degli anziani che a quelli delle giovani generazioni. Non solo chi è anziano tende a preferire la stabilità al rischio (elemento essenziale per la crescita, come sappiamo sin dai primi lavori di Joseph Schumpeter), ma diffida di riforme che possono, direttamente o indirettamente, mettere a repentaglio quelli che loro giudicano, a ragione o a torto, “diritti quesiti” nella loro vita lavorativa.

Ne abbiamo avuto due esempi in questi giorni. In Francia, il Governo socialista ha varato un programma di aggravi tributari di 30 miliardi di euro e di riduzione della spesa di 10 miliardi di euro che ha portato in piazza il 30 settembre ben 80.000 persone solamente a Parigi, ma ha trovato modi e maniere per riportare da 62 a 60 l’età pensionabile, proprio al fine di soddisfare l’elettore “mediano”. In Spagna, il 28 settembre, il Governo popolar-liberale ha varato il programma di finanza pubblica più severo della storia del Regno al fine di evitare insolvenze e fallimenti bancari a catena; non solamente non ha toccato il capitolo pensioni, ma ha previsto, per il 2013, un leggero aumento per tutto coloro che sono “a riposo”. In Spagna, la spesa previdenziale è pari al 9% del Pil, inferiore a quella dell’Italia (13%) e della Francia (15%), ma l’invecchiamento è più rapido che negli altri due Paesi: nel 2050 un terzo della popolazione avrà più di 65 anni.

C’è la probabilità che l’aumento dell’età dell’elettore “mediano” sarà il freno alla riforme e che i tassi di crescita saranno ancora più bassi di quelli, deludenti, citati. Da anni una pattuglia di economisti e di demografi sostiene l’urgenza di dare attenzione alla politica per la famiglia come veicolo per aumentare la natalità e cominciare a modificare le tendenze. Nell’Ue e in numerosi Stati membri non se parla. Non è mai troppo tardi.