Mentre negli Usa si consumava l’ultimo dei tre dibattiti per le presidenziali, Moody’s tagliava il rating di cinque regioni spagnole, fra le quali la ricca e irredentista Catalogna, dopo aver confermato la propria valutazione sulla Spagna nei giorni scorsi a “Baa3” con outlook negativo e mettendo nel mirino anche Estremadura, Castiglia-La Mancha, Andalusia e Murcia. Il downgrade sarebbe dovuto al «deterioramento della loro posizione di liquidità, alle riserve di liquidità limitate e alla significativa dipendenza a linee di credito a breve termine per finanziare le loro operazioni».
Il rating della Catalogna è stato tagliato a “Ba3” da Ba1”,così come quello di Murcia. La valutazione sull’Andalusia è stata ridotta a “Ba3” da “Ba2”, mentre quello di Castiglia-La Mancha a “Ba3” da “Ba1”. Il rating dell’Estremadura è stato ridotto di un gradino a “Ba1” da “Baa3”, una decisione «che riflette il persistente elevato deficit e la debole posizione di liquidità». Moody’s ha invece confermato la propria valutazione sui Paesi Baschi e sulla provincia di Biscaglia a “Baa2”: «Il regime fiscale unico e tutelato dalla Costituzione consente loro di mantenere un rating superiore di un gradino a quello sovrano della Spagna». E dopo la travolgente vittoria degli indipendentisti alla elezioni di domenica, qualcuno potrebbe leggere il giudizio di Moody’s come una benedizione dei mercati alle spinte secessioniste. Per l’agenzia di rating, infatti, «i loro limitati bisogni di finanziamento per il 2012 e il 2013 e la loro posizione di liquidità limitano l’impatto delle difficili condizioni di mercato sulle loro performance finanziarie». Il rating delle regioni di Castiglia y Leon, Galizia e Madrid è stato confermato a “Baa3”, mentre resta a “B1” quello di Valencia: «La valutazione già riflette l’elevato debito e la limitata liquidità».
Insomma, salvo pochissime eccezioni, un quadro a dir poco sconfortante per le Generalitat spagnole. Non c’è che dire, federalismo responsabile al suo meglio! D’altronde che le regioni iberiche avessero una certa propensione allo sforamento dei conti lo conferma il fatto che la Spagna si sia dotata di un fondo per il salvataggio delle Generalitat in difficoltà da ben 18 miliardi di euro, mica due lire. Bene, vediamo nel dettaglio i fondi già richiesti dalle varie regioni: Catalogna 5,023 miliardi di euro, Andalucia 4,906 miliardi di euro, Comunidad Valenciana 4,500 miliardi di euro, La Mancha 848 milioni di euro, Canarie 757 milioni di euro, Murcia 528 milioni di euro, Baleari 355 milioni di euro e Asturie 261,7 milioni di euro. Totale: 17,179 miliardi di euro.
Evviva, il fondo di salvataggio è già esaurito a oggi! Restano in cassa per futuri – e quantomai certi – nuovi salvataggi, ben 821 milioni di euro! Anzi no, perché ieri pomeriggio alle 15.30, mentre i mercati viravano in positivo per i dati che giungevano dagli Usa (altra fabbrica di balle sopraffine), il governo dell’Andalucia rendeva noto che chiederà «ulteriore aiuto alla Spagna, visto che questa deve andare incontro alle regioni che sono ormai incapaci di finanziarsi sui mercati». E, per finire: «L’ammontare del fondo di salvataggio per le regioni è stato sottostimato». E vai, i 18 miliardi sono già andati, finiti, spariti! Ora capite perché vi dico da settimane che la Spagna è fallita e che i rally borsistici e gli spread in calo delle ultime settimane erano tutte barzellette?
Qualche altro numero. La ratio tra debito privato spagnolo e Pil è del 300%, una porzione molto ampia del sistema bancario spagnolo (parliamo di circa il 50% di tutti i depositi e prestiti del Paese) fino a pochi anni fa era totalmente non regolamentata, quindi foriera a breve di sorprese da brividi. Gli stessi istituti iberici hanno drenato circa 400 miliardi di euro su base mensile dalla Bce per le loro esigenze di liquidità, 377 a giugno: quindi, sono tecnicamente falliti e tenuti in vita dai soldi di tutti noi. Di più, le banche spagnole a oggi sono venditrici nette di bond sovrani spagnoli, nell’attesa che Rajoy ceda e la Bce cominci a comprarli.
Il sistema bancario iberico ha perso il 18% dei suoi depositi negli ultimi 10 mesi e quest’anno deve fare roll over sul 20% dei suoi bonds, mentre l’economia reale versa in condizioni pietose: disoccupazione al 25%, mentre quella giovanile è sopra il 50%. Di più, nel trimestre conclusosi a settembre, l’economia spagnola si è contratta dello 0,4% rispetto ai tre mesi precedenti. Insomma, recessione totale. Eppure, le aste dei bonds vanno bene, almeno così leggiamo sui giornali. Certo, nell’attesa che la Bce acquisti in massa. Ma potrà davvero Francoforte intervenire con il suo bazooka, nel caso il governo spagnolo si decida finalmente ad affrontare la realtà?
Ieri qualche cifra ha reso chiaro come la situazione europea nel suo complesso sia in continuo deterioramento. Continua infatti ad aumentare il livello del debito pubblico in Europa: secondo i dati diffusi da Eurostat, nel secondo trimestre di quest’anno la media dell’Eurozona ha raggiunto il 90% del Pil (era 88,2% alla fine del primo trimestre) e quella dell’Ue a 27 paesi l’84,9% (dall’83,5% di marzo). Il debito italiano, poi, si conferma il secondo maggiore, pari al 126,1% del Pil, dopo quello greco (150,3%) e appena superiore a quello portoghese (117,5%). Complimenti al governo dei tecnici alla guida del Paese su mandato Bce e Bundesbank, gran bel lavoro! E il trend non è di oggi, visto che rispetto al 85,4% del 2010, già nel 2011 la ratio debito/Pil dell’eurozona era salità all’87,3% e il Fmi si attende un’ulteriore crescita nel 2013, prima di un minimo declino.
Di più, la zona euro è sprofondata ancora più nella crisi: a ottobre l’indice dei responsabili degli approvvigionamenti ha subito un nuovo e inatteso calo, a 45,8 punti dai 46,1 punti di settembre, segnando il valore più debole da 40 mesi a questa parte. Lo riferisce la società di ricerche Markit Economics, precisando che la contrazione del Purchasing Managers Index riflette un calo dell’attività tra le imprese dell’industria manifatturiera, mentre nel terziario la dinamica è risultata più stabile. «La zona euro è sprofondata ancora di più nella crisi all’inizio del quarto trimestre – afferma Markit con un comunicato – con la produzione cumulativa dei settori manifatturiero e terziario in discesa al tasso più rapido dal giugno del 2009».
Siamo proprio sicuri che questa cura da cavallo a base di tecnocrati, austerity e continua creazione di nuovo debito tra emissioni forzate e swap, stia curando il malato? O, forse, la volontà non è quella di curare ma di ammazzare selettivamente? Attenzione, poi, il caos greco sta per ripartire. È questione di giorni. Pochi. E nemmeno l’ennesima riproposizione della stentata ricetta pro-inflazionistica fatta ieri da Mario Draghi di fronte al Bundestag potrà placare i mercati (e i tedeschi), una volta che il Re europeo sarà veramente nudo.
Già, perché proprio mentre Draghi parlava, si consumava l’ennesima pantomima. Il ministro delle Finanze della Grecia, Yannis Stournaras, annunciava infatti che Atene aveva ottenuto, come richiesto, altri due anni di tempo per centrare i propri obiettivi di risanamento dei conti, con il nuovo termine fissato ora al 2016 anziché al 2014. Pochi minuti e un portavoce del governo tedesco negava decisamente che questo fosse accaduto, facendo intendere che la troika non solo non ha dato il via libera alla dilazione ma, anzi, avrebbe parecchi appunti da muovere contro Atene, forse mettendo addirittura a rischio la nuova tranche di aiuti. Ora ditemi voi, come speriamo di salvarci dai mercati finché succedono cose simili? Forse con le belle intenzioni e i pochi fatti di Mario Draghi e dei suoi bazooka?
P.S. «Fino ad ora l’Italia non ha ricevuto un solo euro dall’Europa e non è prevedibile, né all’ordine del giorno, nessuna richiesta di aiuti». Lo ha assicurato Giorgio Napolitano durante la conferenza stampa all’Aja, al termine del colloquio con il primo ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte, sottolineando che finora il nostro Paese «ha dato un contributo importante per gli aiuti e non ha avuto un euro». Ahi ahi, quando si comincia a negare il bisogno, tira brutta aria…