Dopo mesi di risultati altalenanti, un dato accomuna tutta Europa: le emissioni di titoli pubblici non vanno bene, neppure a Berlino. Un esito strano, quello dell’asta di fine settembre. A fronte di un’offerta pari a cinque miliardi di euro, il Tesoro tedesco è riuscito a collocarne appena più di tre con un rendimento in salita di dieci punti base dall’1,42% all’1,52% sulla scadenza decennale. Tassi lontani dal 6% di Madrid, ma, sbigottiti, molti analisti hanno abbozzato in fretta un’ipotesi di scuola: gli investitori abbandonano il Bund per tornare sull’azionario. “La ripresa è vicina” si sono spinti ad affermare alcuni commentatori sulla stampa specializzata d’Oltralpe. In tutta risposta, il DAX 30 ha lasciato 100 punti sul terreno e i volumi hanno deluso chi attendeva lo sbarco in massa di quei capitali che avevano disertato l’asta.



Le reazioni a quel punto si sono fatte meno accademiche. La Cancelliera Merkel, ospite a un evento organizzato dalla Federazione industriale tedesca, ha dichiarato che sugli aiuti ai paesi in difficoltà è inutile concedere “supporto senza controlli” e a quelle parole nessuno, neppure il ministro delle finanze Schaeuble lì presente, ha obbiettato che l’assenza di controlli tedeschi sulle finanze pubbliche spagnole un tempo si chiamava sovranità nazionale.



Tornando alle aste del Bund, una spiegazione plausibile a ciò che è accaduto nell’arco degli ultimi mesi, arriva da un report pubblicato pochi giorni fa da Standard & Poor’s. L’agenzia di rating tira in ballo la Banca nazionale svizzera (Bns) e sovrappone le oscillazioni del tasso di cambio franco-euro agli andamenti delle aste pubbliche di alcuni Paesi europei (i nomi seguono, ma si possono già indovinare…).

Partiamo dagli scambi valutari. Con l’esacerbarsi della crisi, e a più riprese (marzo e ottobre 2008, inizio 2009, estati 2010 e 2011), il franco svizzero si è significativamente rafforzato sull’euro senza che i fondamentali economici della Confederazione elvetica ne giustificassero i rialzi. Ad attirare l’interesse sulla valuta coronata da foglie di quercia era in realtà il cosiddetto “flight to quality”, ossia la ricerca da parte dei grandi investitori esteri di un rendimento magari basso ma certo, in attesa di giorni migliori. In altre parole, il franco svizzero, ancor più che il Bund, era diventato il bene rifugio della crisi europea. E negli uffici Bns, i responsabili delle operazioni monetarie erano tutt’altro che lusingati. L’export perdeva quote significative di mercato negli sbocchi tradizionali, Francia e Germania, mentre il tasso di cambio portava alle stelle il costo di un soggiorno nei Cantoni.



Ad agosto 2011, in concomitanza con l’ormai abituale volatilità estiva, il franco svizzero sfiorava a 0,9649 la parità con l’euro. Il 6 settembre l’annuncio: la Bns non avrebbe più accettato una libera fluttuazione delle due valute e tantomeno il rafforzamento del franco svizzero. Di conseguenza, il tetto massimo per la moneta elvetica era fissato a 0,8333 sull’euro, valore in prossimità del quale le autorità monetarie svizzere sarebbero intervenute. E che la Bns sia intervenuta è certo, perché nell’ottobre successivo il franco è sceso del 17% in poche settimane.

Quello che però si sono chiesti gli analisti S&P’s – non solo loro, a dire il vero – è come sia intervenuta. Se guardiamo ai primi sette mesi del 2012, dove una resistenza si è sistematicamente opposta alle pressioni rialziste sulla valuta elvetica, scopriamo che in concomitanza con gli interventi calmieranti della Bns i rendimenti di alcuni titoli pubblici dell’Eurozona si sono significativamente abbassati. Stiamo parlando di quei paesi membri che ancora – a torto o a ragione – mantengono un merito creditizio sulla tripla A. Sovrapponendo le due figure, si trova che ogni qualvolta la Bns abbia dovuto vendere franchi svizzeri e acquistare euro per bilanciare il cambio, le emissioni di Germania, Francia, Olanda, Austria e Finlandia abbiano registrato esiti piuttosto felici. Un caso?

Coincidenza o meno, la vera domanda è dove la Bns investa i capitali freschi di conversione in euro. E non serve un guru della finanza per rispondere che la destinazione più naturale di tali riserve siano titoli a reddito fisso denominati in euro e con rischio minimo di default. L’identikit che ne esce è il classico titolo del Tesoro di un Paese dell’eurozona a tripla A. Germania, Francia, Olanda, Austria e Finlandia, giusto per rimettere i nomi in fila. Vista la secca smentita della Bns, si può ritenere l’analisi S&P’s sostanzialmente corretta.

A questo punto, vale la pena azzardare qualche stima. La stessa Bns ha dichiarato a fine agosto di possedere riserve in valuta estera per un equivalente di 418 miliardi di franchi svizzeri. Secondo i dati semestrali della banca centrale, a giugno 2012 l’85% di tali riserve era investito in titoli di Stato, mentre il 60% era denominato in euro. Incrociando i numeri, si può concludere che dalla sua dichiarazione di ingerenza sul cambio euro-franco la Bns abbia acquistato almeno 80 miliardi di euro in titoli di Stato AAA.

Calendario alla mano, le dosi massicce dell’intervento elvetico si sono concentrate soprattutto a fine primavera, quando più di un investitore faceva incetta di franchi svizzeri nel timore di un’altra estate turbolenta. E qui le coincidenze cominciano ad accumularsi. Maggio 2012. Dopo mesi di rialzi i rendimenti dei bond francesi a dieci anni calano di colpo del 22%, passando dai tre punti percentuali al 2,35%. Analogo ribasso si nota sulla curva tedesca, dove – dati Bloomberg – i rendimenti decennali passano dall’1,47% all’1,17% in una settimana (-20%) e da allora restano sui minimi storici di sempre. Stessa dinamica si verifica a fine maggio sui ritorni di tutti i paesi tripla A dell’eurozona. E solo su questi, perché negli stessi giorni Atene brucia – letteralmente – e a Madrid va in scena il tracollo di Bankia.

Per dare l’idea di quanto la Bns abbia in buona sostanza influenzato – o distorto, come scrivono molti analisti finanziari – il mercato europeo dei titoli pubblici, basti pensare che ottanta miliardi di euro equivalgono a sei mesi di budget per l’intero blocco dei paesi beneficiari degli acquisti. In altre parole, mentre a Berlino Governo, media e Confindustria si stracciavano le vesti per gli interventi Bce, a garantire la liquidità del Bund ci pensava il corrispettivo svizzero di Mario Draghi.