Tra poco più di una settimana, gli americani andranno alle urne per eleggere, in un unico giorno, l’inquilino della Casa Bianca per i prossimi quattro anni, un terzo della Camera dei Rappresentanti, il Senato, e una miriade di Governatori, Parlamenti di numerosi Stati dell’Unione e via via sino agli School Boards che gestiscono la politica dell’istruzione a livello delle singole Contee (equivalente delle nostre Regioni all’interno dei singoli Stati dell’Unione). Il sistema è complesso; non è questa la sede per riassumerlo. Meglio concentrarsi sugli esiti probabili delle elezioni per noi, ossia per l’Europa.



Gran parte della stampa italiana considera Obama il favorito. Ho vissuto circa vent’anni a Washington e vi ritorno periodicamente. Posso assicurare i lettori che la stampa italiana non ha effetti sull’eleggibilità attiva o passiva negli Stati Uniti. La stessa stampa americana morde un po’ a livello locale (principalmente delle Contee), ma non a quello federale. In una campagna in cui il voto popolare pare un testa a testa, ma dove il Presidente viene eletto da “grandi elettori” definiti per ciascuno degli Stati dell’Unione, ciò che conta è il risultato negli “swing States”, quelli che per il loro peso (in termini di “grandi elettori”) determinano il risultato della competizione per la Casa Bianca.



Nel lontano 1978, Ray Fair dell’Università di Yale ha dimostrato che il ciclo economico incide molto di più dei dibattiti televisivi, della propaganda e degli stessi finanziamenti a supporto di questo o quel candidato: ciò è avvenuto in 21 delle ultime 24 presidenziali. Il Bureau of Labor Statistics pubblica dati sull’andamento dell’occupazione (non del Pil) dei singoli  Stati. In 14 dei 18 “swing States” il tasso di disoccupazione è aumentato in misura significativa – specialmente nel Michigan e nel Wisconsin, roccaforti dell’elettorato di Obama nel 2008. La disoccupazione è anche cresciuta in due Stati (South Carolina e Oregon) tradizionalmente repubblicani (ma titolari di pochi “voti elettorali” – 16 rispetto ai 26 di Michigan e Wisconsin).



Ci sono, però, segni di ripresa (nell’ultimo trimestre il Pil nazionale ha riportato un tasso di aumento su base annua del 2%), come sottolineato al seminario dell’Aspen Italia, tenuto il 27 ottobre all’Isola San Marcello nella laguna di Venezia. Saranno più visibili e palpabili dopo il 6 novembre. A vantaggio di chi avrà la responsabilità di guidare gli Usa nei prossimi quattro anni.

Insomma,  al momento in cui scriviamo, la partita è ancora tutta da giocare. I sondaggi danno un lieve vantaggio all’incumbent, Obama, ma analisi più approfondite mostrano che bastano i risultati di pochi Stati dell’Unione per rovesciare l’esito della corsa alla Casa Bianca. Più difficile entrare nel resto della competizione, anche a ragione di differenze dei sistemi elettorali.

Alcuni fatti, però, parlano chiaro: nei loro programmi elettorali, nei discorsi e nei dibattiti televisivi, tanto Obama quanto Romney hanno mostrato di curarsi piuttosto poco dell’Europa: a minor nuisance (una piccola seccatura a ragione di una crisi del debito sovrano che i 17 dell’eurozona non sembrano in grado di saper pilotare), ma non molto di più. Tanto l’uno quanto l’altro guardano con maggiore attenzione all’Asia e all’America Latina.

Sottolineata questa disattenzione (“benevola” o “malevola” che sia), occorre chiedersi quali saranno le policies effettive che verranno poste sul tappeto. Il quadriennio di Obama (lo abbiamo sottolineato con grande ricchezza di dati) è stato un periodo piuttosto negativo per l’economia americana: oggi gli Usa hanno un tasso di disoccupazione dell’8% della forza lavoro, un disavanzo delle partite correnti di 500 miliardi di dollari l’anno (pari a oltre il 3% del Pil), un saldo negativo dei conti federali d’esercizio attorno al 7% del Pil e uno stock di debito (in rapporto al Pil) in rapida crescita. Obama è riuscito a far approvare il quadro di una legge sanitaria per estendere a tutti una copertura assicurativa. Ma le sue promesse in materia di politica estera non sono state mantenute: c’è ancora guerra in Iraq, Afghanistan e altre regioni, il carcere di Guantamano è sempre là. In materia di politica economica internazionale non ha mosso un dito per la liberalizzazione multilaterale degli scambi; ha, anzi, promosso accordi per la frammentazione del commercio mondiale.

Romney propone una politica economica non molto differente da quella della Prima Amministrazione Reagan: un drastico taglio della pressione fiscale – oggi negli Usa sfiora il 30% del Pil, mentre in Italia è attorno al 50% – e una strategia di rilancio dell’offerta. Negli anni Ottanta, tutto sommato, funzionò anche se non fu Reagan a coglierne i frutti ma i suoi successori, che godettero di vari anni di “vacche grasse”. Allora, però, gli Usa non dovevano fare i conti con un disavanzo strutturale dei conti con l’estero vasto come l’attuale, potevano contare su un’Europa (allora il 25% del Pil mondiale) e un Giappone che tiravano e non erano alla mercé della Cina per il finanziamento dei loro titoli di Stato. Con Romney è possibile che la politica economica internazionale Usa sia rivolta all’Asia (il grande creditore degli Usa) e all’America Latina (lo scalpitante vicino meridionale) ancora più che con Obama.

C’è, però, una speranza che nessuno in Italia (e a Bruxelles) pare notare: i repubblicani sono tradizionalmente liberisti in materia di commercio internazionale e il programma approvato dalla Convezione del GOP (Great Old Party, così amano definirsi) prevede la costituzione di una vasta zona di libero scambio atlantica (Usa-Ue) e di una analoga con l’America Latina, nonché di operare di concerto con l’Asean verso qualcosa di analogo nel Bacino del Pacifico. Ciò bloccherebbe la dannosa frammentazione del commercio mondiale e potrebbe essere la base per un negoziato multilaterale tra grandi aree commerciali. La “piattaforma” di Obama è invece densa di impegni protezionistici specialmente per la metalmeccanica e l’agricoltura. Lascio ai lettori di tirarne le conseguenze.