Il governo sta mostrando di voler perseguire l’obiettivo del pareggio di bilancio – che l’Italia si è impegnata con trattato europeo a raggiungere entro il 2013 per rinforzare la credibilità del suo debito non aumentandolo – con tagli di spesa e non con più tasse. Il rigore si può attuare in due modi: riduzione delle uscite o aumento delle entrate.
La pressione fiscale ormai ha raggiunto livelli che deprimono con evidenza riconosciuta da tutti – economisti, associazioni, sindacati di lavoratori e imprenditori, Corte dei conti (qualche giorno fa) e governo stesso – la crescita e peggiorano la recessione. Tale situazione ha generato la svolta: d’ora in poi il rigore andrà perseguito con tagli di spesa, perché in caso contrario l’economia resterebbe recessiva. Senza crescita che produce gettito per le casse statali salterebbe anche l’equilibrio di bilancio.
Finora, da decenni, le manovre di riequilibrio dei conti pubblici per restare dentro i parametri di equilibrio si sono sempre basate su una formula mista di tagli, spesso finti perché riducevano un rialzo di spesa e non quella strutturale, e su un aumento, questo vero, delle tasse indirette e dirette. In realtà, nella “legge di stabilità” che il governo presenterà questa settimana al Parlamento, su circa 10 miliardi previsti per l’obiettivo del pareggio di bilancio, tale formula è ancora residualmente presente, perché 8,5 dovrebbero venire da tagli e 1,5 da riduzioni delle detrazioni fiscali, cioè un aumento nascosto delle tasse. Ma c’è una discussione in corso per recuperare anche questo miliardo e mezzo aumentando i tagli.
Qualora l’opinione espressa sui giornali fosse influente, raccomando al governo di insistere per inaugurare una formula di equilibrio di bilancio che lo persegua totalmente via riduzioni della spesa. Non per estetica liberista o antistatalismo ideologico, ma per razionalità, pensando ai seguenti benefici, oltre all’impossibilità di aumentare le tasse: (a) gli attori di mercato che valutano se comprare o meno di titoli di debito italiano saranno certamente colpiti favorevolmente dall’avvio di una politica di riduzione strutturale della spesa pubblica che promette per il futuro sia un equilibrio dei conti, sia la possibilità di ridurre le tasse; (b) ciò potrebbe evitare all’Italia di dover ricorrere, a novembre, all’umiliante, e pericolosa, richiesta di aiuto alla Bce e Fondo salva-stati per garantire il suo debito, cosa che tra l’altro implicherebbe tagli più grandi e rapidi alla spesa di quelli ora previsti dal governo.
Ma non dimentichiamoci che la prossima svolta sarà quella di ridurre sostanzialmente le tasse, perché in caso contrario la riduzione di spesa, mantenendo questi livelli di drenaggio fiscale, porterebbe comunque a una deflazione impoverente, cioè a meno soldi che circolano nel mercato interno. Il governo fa intendere che non può permettersi di dare anche questo segnale, perché la priorità del pareggio a breve termine prevale. Ma vorrei avvertirlo che nel momento in cui il mercato comincerà a credere alla capacità dell’Italia di tagliare spesa, cosa su cui finora era scettico, poi, immediatamente, vorrà vedere anche quella di avviare la detassazione per stimolare la crescita. E se non la vedrà, tornerà a scontare il caso peggiore per il debito italiano.
Quindi la svolta sul metodo del rigore implica strettamente quella in materia fiscale. Esattamente quanto? Per rimettere sia in equilibrio contabile, al netto di operazioni sul debito, sia in crescita l’Italia servirebbero, come più volte argomentato su queste pagine, almeno 100 miliardi di tagli alla spesa e altrettanti di tasse. Ricordiamolo.