Tra pochi giorni (il 18-19 ottobre), i Capi di Stato e di Governo dell’Ue si riuniranno a Bruxelles per discutere del futuro dell’integrazione europea sulla base del “rapporto Van Rompuy” ora all’esame dei loro sherpa. Il Governo italiano ha predisposto il Documento di economia e finanza (Def) e prima del vertice di Bruxelles saranno varati gli ultimi provvedimenti su finanza pubblica e crescita. Sono, poi, alle porte elezioni di vario livello – due grandi Regioni prima (e tra non molto anche le altre), importanti Comuni e Province, il rinnovo della Camera e del Senato (ma ancora non si sa come verranno contati i voti – l’obiettivo principale di qualsiasi legge elettorale) e il nuovo Capo dello Stato.



Nel dibattito in preparazione del Consiglio europeo, l’Italia potrebbe avere un ruolo importante nel mediare su temi specifici (ad esempio, le differenze tra Francia e Germania in materia di mercato del lavoro e di vigilanza bancaria), ma anche e soprattutto sul più vasto argomento di quale Europa predisporre per il futuro: se una che vada progressivamente verso il federalismo o una a cerchi concentrici di varie forme e gradi di cooperazioni intergovernative.



Per avere questo ruolo e, ancor più, per trasmettere l’immagine a se stessa e agli altri nelle prossime contese elettorali, occorre uscire da discussioni sul breve periodo – short termism per utilizzare una parola inglese ormai diventata di uso comune anche nel nostro Paese – e dai giochetti personalistici di potere. Occorre chiedersi quale sarà il futuro a medio e soprattutto lungo termine del Paese e se c’è un tracciato per cambiarlo.

Il quadro non è rassicurante. Su questa pagine, circa due settimane, abbiamo riportate le stime Ocse: una contrazione del Pil di 14 punti percentuali tra il 2008 e il 2014 a cui seguirebbero (se le riforme vengono effettuate nei modi e nei tempi previsti) dieci anni con un aumento complessivo del Pil di 4 punti percentuali (ossia dello 0,33% l’anno). Ho verificato le stime del modello econometrico dell’Ocse con quelle degli strumenti del Fondo monetario e dell’Università di Oxford: il quadro è ancora più fosco.



Nel contempo, la contrazione 2008-2014 ha distrutto parte importante del principale settore produttivo di un Paese a vocazione manifatturiera come il nostro, in quanto privo di risorse naturali, con un’agricoltura poco competitiva e con servizi finanziari non innovativi: la produzione industriale è passata dal 22% al 15% del Pil in sette anni e nel Mezzogiorno, secondo l’ultimo Rapporto Svimez, siamo alle prese con una vera e propria “desertificazione industriale”. In questo contesto si pone il problema occupazionale, all’origine anche dei moti studenteschi di questi giorni.

Oggi il tasso di disoccupazione è l’11% delle forze lavoro. Nell’Europa a 27, gli “occupati in attività dipendenti” dell’Italia sono i penultimi in termini di orari settimanali effettivi di lavoro. Secondo stime mai smentite, su base annua un “occupato” italiano lavora un numero di ore di lavoro inferiore al 40% di quelle effettivamente lavorate da un “occupato” americano.

Inoltre, l’invecchiamento della popolazione, in parte dovuto alla mancanza di una politica per la famiglia, l’età mediana (quella attorno alla quale si addensa la maggior parte di uomini e donne) degli elettori italiani sta raggiungendo i 50 anni – quando moltissimi contano gli anni che li separano dalla pensione, non investono guardando al lungo periodo (specialmente se non hanno figli), non innovano e tanto meno si dedicano al venture capital o simili. Le prospettive sono di una società grigia e sempre più povera di reddito e – ciò che è più grave – di idee.

Questo percorso sembra irrevocabilmente segnato. Le tendenze demografiche richiedono tempi lunghi perché se ne tocchino con mano gli effetti: un programma volto a ridurre il tasso d’invecchiamento avrebbe i suoi primi effetti verso il 2040 – dopo due generazioni di precariato alla ricerca del lavoro che i migliori andranno a trovare all’estero.

Tuttavia, un “dibattito proibito”, per riprendere il titolo di un libro di Jean Paul Fitoussi, su questi temi, fa solo danno. È urgente aprirlo e approfondirlo. Al fine di esaminare come cambiare tracciato.

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