Grilli e le tasse. Il ministro dell’Economia del governo Monti è soprattutto un tecnico: era direttore generale del Tesoro, per lui si prevedeva una brillante carriera come governatore della Banca d’Italia, in passato si vociferò pure di prestigiose cariche in istituzioni internazionali di primo piano. Invece eccolo lì: dopo un tirocinio di qualche mese come sottosegretario, il presidente del Consiglio lo ha nominato ministro, assegnandogli la poltrona più importante del suo governo. Ci si aspettava però che Vittorio Grilli continuasse a fare il suo mestiere, che consiste nel gestire al meglio i conti pubblici, a tenere stretti i cordoni della borsa di fronte agli assalti dei partiti spendaccioni e così via. Si sperava che non avrebbe ceduto alla politica, alle sue formule e alle sue furbizie. Invece non sta andando proprio così.
Di fronte al numero crescente di indignati per il peso eccessivo delle tasse che inevitabilmente ampliano la curva recessiva imboccata da tempo dal Paese, Grilli si è lasciato andare a una previsione, a una mezza promessa: “L’Irap potrà essere abbassata, forse, a partire dal 2014”. Viene naturale chiedersi su che cosa si basi l’affermazione del ministro: quella delle previsioni economiche si è rivelata un’arte impossibile, come ha confermato lo stesso presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, invitando tutti, politici ed esperti, a usare con cautela i numeri messi quotidianamente a disposizione dal suo Istituto. Appunto. Come fa Grilli a dire che abbasserà un’imposta fra due anni quando nessuno ha la più pallida idea di quale sarà allora il fabbisogno di cassa, legato a un’infinità di variabili a partire dal famigerato spread? Come fa a sapere se ci sarà ancora lui al governo e con i poteri di varare quel taglio fiscale? Con quello che si profila all’orizzonte, è sicuro che il 2014 non sarà di nuovo un anno elettorale, a neanche 12 mesi dal voto dell’aprile prossimo? Meglio per Grilli continuare con il suo tradizionale aplomb tecnico lasciando stare le tirate da politico, alle quali oggi nessuno più crede. Da questo governo ci si aspetta che faccia e non che prometta.
Ancora futurologi. Gli esperti dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) si sono messi a studiare il futuro economico del pianeta da oggi al 2060. “Vaste programme”, come ebbe a rispondere il fondatore della Quinta Repubblica francese, Charles De Gaulle, a chi gridava lo slogan: “Morte agli stupidi”. Comunque i signori dell’Ocse pare siano riusciti nell’impresa e pochi giorni fa hanno reso pubblico il risultato dei loro sforzi. Vi si legge di tutto e in quel tutto nulla è ovviamente verificabile. In questi tempi di spending review non sarebbe stato più semplice intervistare il guru di Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio? Sarebbe costato meno e il risultato non troppo diverso dal punto di vista dell’attendibilità.
Garibaldi contro Solferino. Una chiacchierata con un gruppo di colleghi giornalisti del Corriere della Sera, di questi tempi, non mette di buonumore, non è un tonico per l’ottimismo. Sono depressi, dicono di avere la sensazione che un treno stia per travolgerli, ritengono che la loro corazzata non abbia ancora individuato una rotta precisa. Se la pensano così loro, che vivono nel primo gruppo editoriale italiano, allora vuol dire che il clima in generale dell’editoria è ancora peggio di quanto si pensi. Non c’è da stare allegri. In particolare, i giornalisti del Corriere sono perplessi di fronte al nuovo amministratore delegato, Pietro Scott Jovane. Per carità, in maniera unanime è ritenuto meglio del suo predecessore Antonello Perricone (ma per questo bastava poco), però ancora non capiscono esattamente dove voglia andare. Ha fatto fuori senza tanti complimenti una prima linea di manager e questo è stato apprezzato, visti i risultati ottenuti dalla vecchia gestione. Ma ora fa circolare voci di tagli, chiusure, interventi drastici, senza però dare indicazioni concrete. Creando un clima di incertezza, timore, disaffezione, mai utile a un’azienda e meno che mai a una casa editrice.
C’è poi un punto che non capiscono: quello che riguarda la sede del quotidiano, in via Solferino 28 a Milano, dove ci sono le redazioni appunto del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport. L’azienda, si sa, vorrebbe spostare tutti nei palazzi di Crescenzago, periferia di Milano, e mettere in vendita lo storico edificio. Questo permetterebbe di portare a casa un bel gruzzolo di milioni indispensabili a rimettere ordine nei conti, senza costringere gli azionisti a sottoscrivere un aumento di capitale. L’operazione è complessa (c’è un problema di vincoli d’uso) e non piace ai giornalisti. Però non è che siano saliti sulle barricate al grido di “Solferino o morte” come sembra far intendere l’azienda. La verità è che quel trasloco non renderebbe granché. A poche centinaia di metri in linea d’aria dalla sede del Corriere, attorno alla stazione Garibaldi, sta per essere ultimato un quartiere direzionale con grattacieli e migliaia di metri quadrati nuovi di zecca pronti a essere venduti o affittati a chiunque sia in cerca di uffici. Sono spazi moderni, più funzionali e meno costosi di quelli che offrirebbe lo storico palazzo di via Solferino. Quest’ultimo ha un suo fascino, non ci sono dubbi, ma con l’aria che tira oggi, chi compra immobili fa i conti con molta attenzione e non è disposto a mettere milioni in operazioni di pura immagine. E questo vale anche per il settore della moda, che sembrava il destinatario naturale dei prestigiosi uffici occupati da De Bortoli, Mieli, Spadolini, ecc. Insomma, i giornalisti ritengono che sia meglio non fare quel trasloco non perché sarebbe un oltraggio alla tradizione del Corriere della Sera, ma perché si risolverebbe in un cattivo affare. Uno dei tanti nella storia recente della prima casa editrice italiana.